Il “modello di riferimento” è una sorta di lente che utilizziamo per vedere il mondo. Costituisce di fatto il modo in cui processiamo le informazioni e dove decidiamo di incasellarle nella nostra testa. È la struttura delle nostre convinzioni, all’interno delle quali andiamo ad inserire le informazioni. Se ragiono secondo il modello della guerra avrò in testa la casella dei buoni, quella dei cattivi, degli armamenti. E di volta in volta inserirò le persone nelle rispettive celle. Se ragiono secondo il modello economico avrò in testa entrate, uscite e utili. E tutto diventerà un numero.
Ovviamente l’essere umano può applicare diversi modelli, a seconda delle necessità. Rendendosi conto che certi modelli possono essere stretti, ne crea di nuovi. Ma finisce per utilizzare sistematicamente quelli che dal suo punto di vista calzano meglio. Come un vestito, alcuni modelli diventano aderenti nei punti giusti, e larghi dove necessario. Queste rappresentazioni diventano sempre più nostre, al punto tale che quando parliamo di una qualsiasi interpretazione, li diamo per scontati. È come se chiunque potesse usare solo il nostro modello di riferimento. D’altra parte, nella nostra testa calza a pennello, quindi che motivo avrebbe una persona di usare un modello differente? Se non ne siete convinti provate ad affrontare una discussione politica su qualcuno che ha un punto di vista diverso dal vostro. E capirete. Le vostre caselle semplicemente non coincidono.
Oggi voglio parlarvi di uno dei miei modelli. Chiaramente non è solo mio, ma è quello che ho ereditato dal mio lavoro precedente. Lo sport per me è IL modello di riferimento. E come ogni buon modello, è in grado di darci una struttura che possiamo applicare ai contesti più disparati.
E oggi vorrei farvi vedere come ci siano 3 punti che calzano a pennello con il lavoro. Per me i punti perfetti sono molti di più, ma come vi dicevo all’inizio, il modello è mio, e quindi sono di parte.
Partiamo dalla base. Lo sport è fatto di allenamento. L’allenamento costituisce più dell’90% di qualsiasi sport. In alcuni casi molto di più. Provate a pensare alla preparazione del volteggio per le olimpiadi. Il volteggio, come esercizio di ginnastica artistica, dura circa trenta secondi. Viene ripetuto due volte. Se si dovesse raggiungere la finale, ci sarebbero altri due salti possibili. Due minuti di attività, per quattro anni di lavoro. Capite bene quanto possa pesare l’allenamento in uno sport in termini percentuali. Considerate che secondo uno studio del 1993 del professor Anders Ericsson dell’università del Colorado intitolato “The role of deliberate practice in the acquisition of expert performance” si sostiene che servano 10.000 ore di allenamento per diventare bravi in uno sport. Non bastano, ma servono.
Se la si sposta in contesto lavorativo significa che servono almeno 5 anni per diventare un professionista del proprio settore. Questo solo se per 8 ore al giorno si fa quel lavoro. Altrimenti gli anni aumentano. E bisogna impegnarsi. E bisogna ripetere le cose. E ripeterle ancora. E gareggiare. Confrontarsi con altri. E ripetere. Trovare chi è più bravo di noi. E ripetere. Solo a quel punto potremo permetterci il lusso di pensare di essere diventati professionisti. Di sicuro non prima.
“Il miglior riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che se ne ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa” – Alex Zanardi
A questo punto abbiamo capito che dovremo impegnarci il più possibile per eccellere. La fregatura però è che non verremo giudicati in base agli sforzi. Alla fine, nello sport, l’unica cosa che conta è il risultato. E così nel lavoro. In qualche modo qualcuno, nel giorno del vostro colloquio, vi ha guardato in faccia e vi ha detto “ho bisogno di questo e tu sei la persona che fa al caso mio”. Ed è sulla base di quella aspettativa che verrete valutati. Siete in grado di fronteggiare quel problema? Riuscite a dare quel supporto? Nel momento in cui il cliente chiede un progetto, siete la persona adatta a portarlo a termine? E allora si va a vedere negli anni come ci siamo comportati. Performance dopo performance. Ed è vero che quel risultato potrebbe non essere un indice di quanto vi siete sforzati. Ma non si arriva a giocare in serie A solo perché ci si è sforzati. Si arriva perché ci si è sforzati e perché al momento buono si sfoderano le proprie abilità. Sistematicamente.
La questione è nascosta nel “sistematicamente”. Ed è qui che entra in gioco la società, la squadra e si apre il mondo alla pianificazione. Correreste mai una maratona dopo averne fatta un’altra? Suggerireste ad un atleta di fare bagordi la notte prima di una gara? I campioni devono riuscire a dare la cosa che più si avvicina al 100%. E se si parte già in difficoltà quel risultato è evidente che non possa arrivare. Ma nel lavoro non è poi così diverso. Se siete in affanno sempre, tutti i giorni, non aspettatevi dei buoni risultati. Se qualcuno continua a chiedervi attività ritenendo tutto ugualmente urgente e importante finirà per consumarvi. È come giocare la finale dei mondiali tutti i sacrosanti giorni. Quindi aspettatevi errori. Distrazioni. Dimenticanze. Performance scadenti. Salute precaria. Non vuol dire che non si possa soffrire, significa che non bisogna pianificare un lavoro così, se si vuole giocare a certi livelli. Significa che non è portando le persone allo sfinimento che si ottiene il miglior risultato. Significa che senza una pianificazione non si va da nessuna parte. E questo se vi rendete conto non riguarda più solo voi. Ma riguarda tutto il vostro ambiente di lavoro. Riguarda la vostra squadra.
“Con il talento si vincono le partite. Ma è con il lavoro di squadra e con l’intelligenza che si vincono i campionati” – Michael Jordan
Abbiamo capito che serve allenamento per raggiungere una performance di livello. Ma sappiamo anche che se vogliamo giocare un campionato servono dei tempi di recupero, per poter dare tutto quando serve. E finalmente arriviamo a quello che è lo spauracchio più citato e temuto nello sport. La testa e la peak performance. Vi sfido a prendere la gazzetta dello sport, in un giorno qualsiasi della settimana e a leggere i titoli degli articoli. Sono certo che ne troverete almeno uno che sostiene che l’atleta “non c’era con la testa”, “che ha avuto un colpo di matto”, “che non trova più la condizione mentale”. Ne troverete sicuramente, e quando li scorgerete vi renderete conto che si parla del mentale solo quando questo viene meno. Si nota l’assenza e raramente la presenza. Ma questo è da imputare a diversi fattori. Da una parte è un’ottima scusa per quando le cose sono difficili da spiegare e non funzionano a dovere. Dall’altra, ancora oggi, è difficile lavorare su queste tematiche dell’allenamento mentale. Sono pochi i professionisti meritevoli di questo settore. Non sono dei guru. Non sono opinion leader. Sono professionisti dell’approccio alla gara.
E come in un atleta l’approccio alla gara risulta determinante, uguale è per il lavoratore. Mettete un lavoratore in un contesto positivo. Create le condizioni affinché la possa usare quella testa. Non mettetegli addosso la paura di sbagliare, ma istigatelo a provarci, anche oltre le proprie possibilità. Supportatelo di fronte agli altri. Create un percorso per quel cavallo imbizzarrito che è la mente che gli permetta di galoppare spensierato verso un traguardo che avete definito assieme. Allora alla fine vi renderete conto che il risultato arriverà. E sembrerà quasi automatico. E così vi troverete dopo un mondiale spettacolare “Fabio Grosso” che calcia il rigore che continueremo a guardare finché avremo voglia di provare emozioni.
“La forza mentale distingue i campioni dai quasi campioni” – Rafa Nadal