Fortunatamente oggi sta svanendo l’effetto wow che parole come “neuromarketing” e “neuroscienze” hanno finora suscitato e sta rimanendo solo quanto di solido e di applicabile c’è in questa disciplina. Se in questo contesto molti saranno dispiaciuti di non poter più applicare le loro logiche di manipolazione, noi siamo convinti che ne beneficeremo, perché finalmente si potrà fare scienza applicata senza dover spiegare che il “buy button” è una deprecabile illusione.
Siamo convinti che oggi vi siano due elementi principali che concorrono all’interesse nei confronti del neuromarketing e delle neuroscienze più in generale. Un elemento è decisamente negativo, mentre l’altro potenzialmente positivo.
Chi si avvicina per la prima volta al neuromarketing viene inondato da articoli che promettono risultati straordinari. Si prospettano mondi incredibili che, con una semplice ricetta a base di elettroencefalogramma ed emozioni, possono permettervi di guadagnare tutto quello che non siete riusciti a guadagnare con il duro lavoro di tanti anni.
Si possono spremere i propri acquirenti, si possono manipolare e, una volta finito, ci si può spingere alla ricerca di nuovi clienti. Come? A quanto raccontano è facile: è sufficiente premere il “Buy Button” delle persone. Il percorso è così semplice che c’è addirittura una mappa con regole simili a quelle del gioco dell’oca, con i messaggi da far recapitare al “Reptilian Brain”.
Inutile dire che chi si fa profeta di questo credo ha, dal nostro punto di vista, affidabilità e garanzie di risultato tipiche di altri settori, quali oroscopi o cartomanti che però conoscono i numeri del superenalotto e che sono disposti a condividerli con te, e solo con te, per una cifra irrisoria.
Ovviamente questo che vi abbiamo raccontato è ai nostri occhi l’aspetto negativo. Ci troviamo nella situazione in cui la desinenza “neuro” viene esasperata ed usata allo stremo come elemento di marketing, impattando enormemente sul percepito delle persone. Accade a causa di quello che nel mondo della psicologia viene definito “framing”. Sono nate così parole dal grande effetto attrattivo (ma spesso prive di contenuto) come neurobranding, neuropackaging, neurocopywriting, neuroweb, neuroselling, neurogastronomia.
Ora provate a fare un esercizio semplice per capire se questa logica può impattare dal punto di vista marketing. Provate ad immaginare un listino prezzi di un’attività di copywriting, comparata ad una di neurocopywriting. Quale vi aspettiate costi di più?
La cosa curiosa è che l’attività che viene presumibilmente svolta (purtroppo, al di là di ogni nostro desiderio, non sempre è fattibile) in questi settori è sempre la stessa. Cambia solo il contesto di utilizzo. È come se avessimo a disposizione uno strumento (il metro) e ne cambiassimo il nome in funzione del suo utilizzo (metro-distanza, metro-altezza, metro-sport, ecc).
La nascita di questi ipotetici micro-settori è la riprova che si stia provando a portare un aumento di percezione di valore, senza davvero portare un aumento di valore.
Tutto questo finisce (sempre) inevitabilmente, per implodere. È una sorta di schema Ponzi. Senza la garanzia di poter dare i grossi guadagni ai primi investitori. Ad un certo punto, se ci si limita a lavorare sulla percezione di valore, ma si lascia inalterato lo stesso, le aziende si chiederanno che senso abbia avuto l’investimento. E inevitabilmente dirotteranno i capitali verso nuovi fronti.
Oggi, secondo le nostre ricerche, siamo esattamente a questo punto: si stanno riducendo nel mercato i player che sfruttano la parte marketing legata al mondo delle neuroscienze (nonostante ahimè ne rimangano ancora), e si sta profilando un settore che invece persegue l’altro elemento che genera interesse nel settore: i modelli oggettivi e predittivi.
Non sono caratteristiche specifiche del neuromarketing. Sono piuttosto contesti del mondo della psicofisiologia e delle neuroscienze in genere (e non solo). Queste discipline, infatti permettono di fare dei ragionamenti che con i classici modelli di indagine (questionari, interviste, …) non sono disponibili. Non significa che siano migliori o peggiori. Significa semplicemente diversi.
E non si tratta di machine learning o intelligenza artificiale (altri casi linguistici depredati dal marketing becero del proprio reale innegabile valore). Sono semplicemente applicazioni di statistiche che si basano su modelli che già conosciamo. Proviamo con un esempio.
Sapendo alcune caratteristiche di un adulto (in particolare età, stato di salute, …) si può scommettere che la sua frequenza cardiaca a riposo sia tra i 60 e i 90 (Daniel et al, 2005). Mentre se stimassimo quella di un bambino suggerisco di scommettere tra gli 80 e i 100 battiti al minuto. Non è una scommessa molto rischiosa e non lo è proprio perché c’è un modello predittivo che ci dice che normalmente accade proprio questo. La letteratura ci dice che normalmente accade questo.
Analogamente, se mi misurassi la frequenza cardiaca tutti i giorni alle 10:00 di mattina otterrei il mio risultato medio. Potrei quindi predire, con certezza statistica, che il giorno dopo, se non cambio significativamente comportamento, avrò approssimativamente la stessa frequenza cardiaca. Fin qui dovrebbe essere tutto chiaro.
Ora subentra la parte interessante. Cosa significa “cambio significativamente comportamento”? Ad esempio, nel caso della frequenza cardiaca potrebbe subentrare un consumo di caffè consistente (mi sono bevuto 4 tazze nelle 2 ore precedenti). Questo comporterà inevitabilmente una maggior risposta cardiaca.
Ipotizziamo un aumento di 20 battiti. La domanda che ora mi pongo è: “questa cosa accadrebbe a chiunque beva 4 tazze di caffè o accade solo al sottoscritto?”
Ci sono variabili che modificano la risposta (tipo età, peso corporeo, gravidanza, assunzione di farmaci e stato di salute del fegato) ma tutti rispondiamo a questo stimolo (anche se non tutti se ne rendono conto).
Ora provate ad immaginare questa dinamica, spostandola in un contesto nel quale si valutano processi cerebrali legati alle emozioni (ad esempio l’asimmetria frontale), che la letteratura ha dimostrato essere implicati nei processi di scelta.
Di fatto quello che facciamo nelle nostre ricerche è somministrare caffè (ad esempio spot televisivo) e valutare se mediamente ha un impatto sistematico (modifica dell’attività cerebrale) e lo si quantifica (aumento dell’FAA). Perché sappiamo che se è riuscito a generare quest’effetto, riuscirà statisticamente a generarlo anche con i futuri osservatori.
La cosa bella delle neuroscienze è che prescinde dal livello di sensibilità delle varie persone: non tutti percepiscono le proprie variazioni nello stesso modo. Ma essendo valori oggettivi, sono i modelli predittivi che mi permettono di dire se la risposta è significativa oppure no.
Aggiungo, un tema legato all’approccio in TSW. Si possono cercare molti fattori determinanti, in contesto emotivo, ma come in tutte le ricerche è necessario circoscrivere l’obiettivo se si vuole essere efficaci. La nostra sfida è identificare le soluzioni che soddisfano bisogni già esistenti nelle persone.
Non si tratta di creare nuovi bisogni. Si tratta di capire quelli che già abbiamo, e provare a trovare il modo migliore per risolverli (senza dover spiegare che il “buy button” è una deprecabile illusione).
Daniel Limmer, Michael F. O’Keefe, Emergency Care, 10a ed, Upper Saddle River, New Jersey, Edward Pearson, Prentice Hall, 2005, p. 214.