Tanto gli utenti più affezionati, quanto gli addetti ai lavori del settore Digital Marketing, si interrogano da anni sul destino di Twitter, la piattaforma di micro-blogging per eccellenza, la cui mancata crescita – di utili e di utenti – sembra essersi avviata gravemente verso un punto di non-ritorno.
Fonte: https://www.statista.com/statistics/282087/number-of-monthly-active-twitter-users/
Come si può osservare nel grafico sopra, il trend positivo del numero di utenti attivi su Twitter sta assumendo una forma algebrica sempre più logaritmica, e questo si evince facilmente analizzando il tasso di crescita annuale nell’ultimo triennio: se nel biennio 2013-14 gli utenti di Twitter aumentavano in media del 24,5% ogni anno, dal 2015 il growth rate si è attestato attorno al +5,5% annuo.
Le ragioni di questo rallentamento sono di natura diversa, ma irrimediabilmente legate alla user experience offerta da questo social network. Il primo motivo è da ritrovare nella principale caratteristica dei contenuti condivisi in Twitter: il testo come principale forma di espressione.
Sebbene avesse raccolto notevole consenso nella prima fase di diffusione, quando ancora Twitter era considerato più un social network a scopo puramente informativo e come tale veniva usato (da qui la definizione di micro-blogging platform), il limite dei 140 caratteri è allo stesso tempo il suo visual hammer ma anche il più grande deterrente per i potenziali nuovi utenti. Saper esprimere un concetto, un’opinione, una sensazione o un pensiero di qualsiasi tipo in 140 caratteri (20 in meno degli obsoleti SMS) richiede doti di sintesi e di ri-elaborazione che non appartengono a tutti, e l’effort richiesto da questo limite è ancor più accentuato se si osserva il panorama della comunicazione sociale in cui Twitter si trova ad operare.
Il panorama dei social media all’inizio del 2017 vede enormemente privilegiati i social network visual-oriented, su tutti Instagram e Snapchat, i quali viaggiano rispettivamente ad un tasso di crescita annuale del 15,1% e del 48% in termini di utenti. Se Instagram si è affermato come il terzo social network a livello globale (dopo Facebook e Youtube) grazie ai suoi 600 milioni di utenti, Snapchat incalza il “nostro” Twitter, potendo contare su quasi 300 milioni di utenti attivi (dati SocialMedia Life).
Il crescente successo di queste piattaforme è da ricercarsi nella loro stessa natura, dato che contenuti visivi, quali video e foto, sono più facili ed immediati rispetto ad un contenuto testuale, tanto in termini di creazione quanto di fruizione, soprattutto quando si parla di User Generated Content. Agli utenti di Facebook, Instagram e Snapchat non sono richieste particolari doti creative per dare vita alle loro foto, stories o snap; bensì, è sufficiente la propensione a condividere momenti di vita, frame di quotidianità che siano sempre freschi, in grado di coinvolgere la propria rete sociale, e di interagire con essa.
E qui possiamo citare il secondo aspetto in cui Twitter è carente: l’innovazione o, piuttosto, la difficoltà nel comprendere come gestirla nei modi più opportuni.
Basta citare Vine e Periscope, due piattaforme di proprietà di Twitter stesso, mai pienamente valorizzate dalla casa madre. La prima era un’app che permetteva la creazione di video di brevissima durata (max 6,5 secondi) poi condivisibili sulle principali piattaforme social; tuttavia, la decrescita di nuovi utenti, parallelamente alla diminuzione di branded video, hanno ridotto notevolmente la capacità di Vine di generare profitto, e Twitter ha deciso di chiuderla a fine 2016, dopo appena 4 anni di vita.
Periscope,invece, è stata acquistata da Twitter a gennaio 2015, appena 2 mesi prima del lancio ufficiale. Sembrava avere un intrinseco potenziale disruptive, in quanto era la prima piattaforma (esterna a Twitter) che, in modo semplice e veloce, permetteva agli utenti di creare video visibili in diretta streaming. Dopo un enorme successo iniziale, è però stata velocemente superata da Facebook, che ha lanciato un servizio identico ma già in forma native, ossia incorporata nella piattaforma principale; Twitter ha integrato al suo interno le funzionalità di Periscope solo a dicembre 2016, troppo tardi per riuscire ad arginare il vantaggio accumulato velocemente da Facebook.
Il terzo aspetto che sembra penalizzare il social di Jack Dorsey (co-founder e attuale CEO) è quello che emerge dalla commistione tra il tone of voice instauratosi tra gli utenti di Twitter, e l’algoritmo che ne regola la timeline.
Partiamo dall’ultima dimensione appena menzionata. Già dal 2010, Facebook, attraverso l’algoritmo EdgeRank, ha iniziato a regolare la reach dei vari post (di profili privati o Pagine aziendali) in base alle caratteristiche dell’audience potenziale, stabilendo automazioni tali per cui – all’interno del proprio News Feed –un singolo utente vedrà i post potenzialmente più affini a sé, grazie alla profonda conoscenza che la piattaforma di Mark Zuckerberg ha costruito attorno ai propri iscritti, dedotta dal comportamento che ciascun utente di Facebook assume al suo interno.
Quest’algoritmo è ora attivo anche su Instagram (di proprietà di Facebook stesso dal 2012), mentre su Twitter persiste ancora un funzionamento cronologico del Feed di ciascun utente. Pertanto, alle aziende che vogliono ottenere un determinato seguito è richiesto un importante effort in termini di presenza e monitoring, tanto della propria fan base quanto dei trend di discussione che si sviluppano nel corso di ogni singola giornata.
Questo aspetto temporale va poi ad unirsi col tone of voice di Twitter, che si differenzia fisiologicamente da quello degli altri social, e che è legato in maniera biunivoca al già citato limite dei 140 caratteri. Gli utenti che su Twitter sono riusciti a costruire un self-branding di successo, arrivando a parlare ad audience di decine di migliaia di followers, si contraddistinguono per un linguaggio fresco e smart che spesso sfocia in una tagliente (auto)ironia, e che non sempre riesce a creare un’immediata empatia in coloro che si approcciano a questa piattaforma per la prima volta. Inoltre, questo modo di comunicare ha spesso raggiunto il parossismo in occasione di preoccupanti episodi di “bullismo verbale”, che hanno spinto gli stessi vertici di Twitter ad assumere importanti provvedimenti in merito.
Come abbiamo già accennato in precedenza, per ottenere un’elevata visibilità e per riuscire a coinvolgere gli utenti, lo sforzo – in termini soprattutto di tempo – richiesto ai brand per la costruzione di una presenza forte ed impattante è elevato: Twitter è un social in cui le informazioni ed i contenuti viaggiano in maniera estremamente veloce e frammentata, e questa velocità – di pensiero prima ancora che di azione – è richiesta anche ai brand che sono presenti al suo interno.
Se viene meno la costanza nel presidio dei follower, delle conversazioni tra e con essi, così come degli argomenti del giorno (perlomeno i Trending Topic), si possono innescare effetti molto negativi per il brand in questione. La minor frequenza di posting, una minore interazione con i propri follower (talvolta quest’ultima è dovuta a precise policy aziendali, che prediligono comunque un approccio top-down), si traduce in un fisiologico calo di visibilità all’interno delle timeline degli utenti. A sua volta, nel medio-lungo periodo una visibilità inferiore può generare un temibile indebolimento della brand image, escludendo il brand in questione dal panorama di riferimento del settore in cui opera, o del prodotto/servizio che offre.
Oltre a ciò, riprendendo il tema affrontato in precedenza, alle aziende presenti in Twitter è anche richiesto – in maniera velatamente indiretta – di allineare il proprio linguaggio di comunicazione al tone of voice caratteristico di questo social: comunicazioni dal tono troppo istituzionale e formale non riscuotono molti consensi da parte dei follower, e rischiano di passare inosservate nell’indistinto insieme di tweet che compongono la timeline dell’utente.
L’utilizzo di contenuti multimediali quali immagini, video e le più recenti GIF può essere un’ottima leva per ovviare a questa problematica, e per catturare più facilmente l’attenzione di un utente ed incentivarlo ad agire, visto l’appeal dei contenuti visual. È per questa ragione che il principale competitor, Facebook, ha da tempo apportato una correzione al suo algoritmo, facendo in modo che la reach e la visibilità di immagini e (soprattutto) video risultino privilegiate rispetto agli status contenenti solo testo.
Eppure anche questa caratteristica intrinseca dei visual contents entra in attrito con la sequenzialità cronologica con cui i tweet compaiono nel feed di ciascun utente: il potenziale di engagement di un tweet contenente una grafica o un video potrebbe essere vanificato da un errore di valutazione sull’orario di pubblicazione. A inizio 2016 Twitter ha provato ad ovviare a questa problematica inserendo all’inizio della timeline le sezioni “Mentre non c’eri…” e “Nel caso te lo fossi perso…”. In queste sezioni vengono raccolti alcuni tweet ritenuti interessanti per l’utente, o perché hanno avuto molto successo in termini di interazioni, o perché pubblicati dai profili con cui l’utente in questione interagisce più spesso; ma anche questa si è rivelata una soluzione palliativa, non in grado di invertire il trend e rendere questo social maggiormente attraente per i brand.
Tuttavia, esiste un’attività di comunicazione che riesce a sfruttare al meglio la velocità di risposta e di interazione che caratterizzano Twitter, e che la rendono particolarmente indicata per questo social: l’attività di Customer Care. Molti brand si sono avvicinati a Twitter considerandolo proprio come un canale di comunicazione più diretto con i clienti, i quali da subito hanno notato come i tempi di attesa siano notevolmente inferiori a quelli dei tradizionali canali di assistenza (punto vendita o telefono); ciò ha fatto sì che molti brand – ad esempio Tiscali, Nike, Deliveroo e Uber – aprissero un account dedicato esclusivamente all’Help&Support dei propri clienti (oltre al profilo istituzionale), e l’apposito canale di Apple (@AppleSupport) è stato addirittura insignito del riconoscimento “Gold Customer” per l’attenzione e l’impegno mostrati verso i clienti.
Infine, il tema più delicato per il presente – ed il futuro – di Twitter è quello relativo all’advertising: è qui che risiedono le principali cause del secondo grave problema di Twitter, ossia l’incapacità di rendere davvero monetizzabile la propria piattaforma.
Prima di approfondire le difficoltà di Twitter nel generare profitto, è necessario spiegare brevemente come funziona Twitter Ads, la piattaforma che consente alle aziende di effettuare investimenti pubblicitari nel social. A seconda degli obiettivi, Twitter Ads permette di sponsorizzare:
Questa piattaforma venne ideata già nel 2010 dai fondatori di Twitter, affascinati dal modello di guadagno di Google AdWords (una delle principali piattaforme di raccolta pubblicitaria online); nel marzo del 2012 venne lanciata per tutti gli account localizzati negli Stati Uniti e infine, l’anno successivo, ne venne esteso l’utilizzo a tutti gli iscritti.
A livello corporate, questa è considerata la prima voce del revenue model di Twitter, che tuttavia non ha mai rilasciato dati inconfutabili riguardo alle sue fonti di guadagno, né in termini consuntivi né in termini previsionali; e questa mancanza di chiarezza relativa al proprio business model è di conseguenza la principale causa delle difficoltà di Twitter nel trovare nuove fonti di sostentamento economico (più avanti approfondiremo questa questione).
Tornando al funzionamento di Twitter Ads, l’investimento in una campagna di sponsorizzazione avviene con le stesse modalità che regolano i principali attori del mercato adv online (Google AdWords, Facebook Ads): è un sistema di acquisto basato sull’asta, in cui il prezzo dipende dalla campagna (durata, target) e dal momento in cui si effettua l’offerta, e in cui il pagamento avviene solo nel caso in cui l’utente compia l’azione desiderata (click o follow). Ciononostante, da subito le aziende si sono interfacciate con dei costi (per performance) più alti rispetto alle altre piattaforme di online adv:
Ma la ragione che influisce di più sulle perplessità dei brand e che li fa desistere dal riservare una parte del budget media all’advertising in Twitter, è la grande difficoltà di questo social nell’offrire dati profilati ai clienti potenzialmente intenzionati ad investire in pubblicità. Infatti, a differenza di Facebook – che ci tiene a raccogliere la più ampia varietà possibile di informazioni sui propri iscritti (a partire da nome e cognome), Twitter si limita a richiedere ai suoi utenti un numero di dati esiguo: è sufficiente a malapena a profilarli per età (data di compleanno) e provenienza (città di residenza), senza renderne nemmeno obbligatorio l’inserimento.
A differenza di Facebook Ads e Google AdWords, il cui importante successo del business model risiede nell’elevata capacità di riuscire ad intercettare determinati target in base agli interessi, allo stile di vita e ai comportamenti online, Twitter ha una conoscenza piuttosto limitata e per nulla dettagliata dei propri utenti (che nella maggior parte dei casi usano un nickname per rendersi identificabili), sia numericamente che qualitativamente. Di conseguenza, il costo delle campagne sponsorizzate è più alto rispetto a quello dei main competitors, in quanto Twitter non è in grado di attivare campagne pubblicitarie con un focus preciso, rivolgendosi ad utenti che si trovino già nella fase discendente del funnel di conversione.
Come già affermato in precedenza, il business model di Twitter è piuttosto indecifrabile, principalmente per mancanza di chiarezza da parte dei vertici della società, che continuano a mantenere un certo grado di riserbo su numerose questioni, contribuendo ancor di più ad allontanare potenziali investitori.
Da più fronti esterne provengono richieste di innovazioni decise e in grado di elevare sia la qualità della user experience, sia (conseguentemente) il valore dell’azienda. In questi termini, lo stesso CEO di Twitter – Jack Dorsey – nell’estate del 2016, aveva ventilato l’ipotesi di aumentare il limite di caratteri per un tweet, innalzandolo a 10.000 caratteri (giusto per avere un benchmark, quest’articolo finora ne conta oltre 15.000). Gli utenti più affezionati hanno subito levato gli scudi, invocando l’intoccabilità del principale segno di distinzione di questo social network. In effetti, un cambiamento così dirompente potrebbe risultare attraente per i principali detrattori, ma, dall’altro lato, snaturerebbe Twitter stesso, avvicinandolo pericolosamente a Facebook, il quale però ha accumulato un vantaggio competitivo – economico e di brand perception – difficilmente colmabile da un social (e da un’azienda) così in difficoltà.
I maggiori esperti del settore Digital a livello globale invocano da tempo la cessione da parte del CEO e Co-founder Jack Dorsey, che ha dimostrato chiare evidenze di non riuscire a rilanciare un’azienda che ha chiuso il 2016 con una perdita di 456 milioni di dollari, a fronte di oltre 2,5 miliardi di dollari di fatturato. Una netta inversione sembrava potesse arrivare in seguito all’IPO lanciata a fine 2013: poche settimane prima del lancio, Dorsey prevedeva di riuscire a raccogliere 1 miliardo di dollari, ma in realtà la valutazione salì a 31 miliardi di dollari dopo un solo giorno dalla quotazione in borsa.
In quell’occasione, il prezzo di una singola azione fu di 44,90 $, ed arrivò a toccare i 69 $ ad inizio 2014: queste valutazioni hanno chiaramente destato l’interesse di molte corporation – del settore digital e non solo – ma il continuo decremento di crescita di nuovi utenti, unito alla già citata difficoltà nel generare profitto, ha allontanato coloro che si erano esposti in maniera più evidente (Salesforce, Microsoft, Walt Disney), tanto che in queste settimane il prezzo di un’azione di Twitter si è attestato attorno ai 14,50 $ (fonte: Yahoo Finance).
Poiché il trend negativo non sembra trovare una chiave di volta in grado di invertirne l’andamento, alcuni digital guru hanno lanciato una provocazione, tanto infondata quanto affascinante dal punto di vista della geo-politica digital: e se nei prossimi mesi un’offerta per l’acquisto di Twitter provenisse da Facebook?