Anticipare i competitors, anticipare il mercato, anticipare i bisogni dei consumatori.
Anticipare è l’ossessione dell’uomo di marketing, perché arrivare prima di qualcun altro fa la differenza e arrivare per primi vuol dire vincere. Da qui il desiderio di prevedere il futuro, futuro che in gergo chiamiamo “digital marketing trends”. Eccomi dunque a parlare di trend, un po’ come fossero delle entità autonome con le quali dobbiamo fare i conti pena essere tagliati fuori dal mercato.
Se ci pensiamo bene, però, i trend li creiamo noi ogni giorno: sono intrinsechi nelle nostre azioni, nei nostri bisogni. E i bisogni delle persone non cambiano.
Da quando Maslow li ha messi su una piramide, i bisogni non sono mai cambiati; a cambiare sono i mezzi che abbiamo a disposizione per soddisfarli. Parliamo quindi di mezzi e approcci che cambiano, nuove soluzioni ai problemi di sempre, possibilità e realtà aumentate.
Il concetto più antico e nobile di sempre: la condivisione, diventa oggi un modello di business.
Un modello di business sempre uguale ma con tanti nomi diversi: Uber, Airbnb, Antlos, Bla Bla Car, Spotify Family, Netflix Premium, Deliveroo, Enjoy.
Spazi condivisi, logistica condivisa, trasporti, risorse, beni, servizi, skills ma soprattutto esperienze condivise: la sharing economy rappresenta oggi, solo in Italia, un mercato da 3,5 miliardi con oltre 200 piattaforme attive.
Cosa significa, in quest’ottica, condividere? Di certo non “dividere”, ma piuttosto aggiungere valore e possibilità.
Nel concetto non c’è nulla di nuovo. La novità è il fattore abilitante: la tecnologia, che aumenta ogni giorno le possibilità del modello. La tecnologia ne ha ampliato la portata e distrutto i tradizionali schemi. Quanti di noi oggi si fiderebbero nel fare l’autostop, e viceversa dare un passaggio ad uno sconosciuto? Pochi, forse pochissimi; ma se lo sconosciuto godesse di ottime recensioni su Bla Bla Car? Molti di più, perché lo sconosciuto è diventato in certo senso un “amico di amici”, parte della “community”.
Lo “sharing” di esperienze e momenti reso possibile dalla tecnologia, senza filtro e real-time, ha generato un altro fenomeno di cui brand e aziende devono tenere conto: l’esplosione degli UGC, contenuti prodotti dagli utenti, foto, video, post su blog e social network, discussioni nei forum, tweet, recensioni.
Contenuti potenzialmente virali, prodotti da chiunque e accessibili a tutti.
Un potere editoriale diffuso, democratico, di un unico proprietario: l’utente.
E questi utenti parlano dei brand, risultando spesso più affidabili del brand stesso. Ci basti pensare alle recensioni su Amazon o TripAdvisor. Gli user-generated content sono percepiti autentici perché prodotti senza ottenere nulla in cambio, di valore e utili perché creati da qualcuno che è ha già fatto esperienza di quel prodotto o servizio prima di noi.
Gli user-generated content sono quindi contenuti preziosi per altri utenti e ancor di più forse per i brand, di cui tenere conto e da monitorare perché parlano di noi, concorrono alla nostra reputazione e soprattutto rappresentano il termometro del sentiment degli utenti.
Il contenuto però non può prescindere dall’autore, colui che vi conferisce credibilità e autorevolezza. Una miriade di autori più o meno autorevoli e riconosciuti che i brand devono imparare a conoscere e con i quali devono instaurare una relazione perché rappresentano talvolta i primi influenzatori del proprio target.
Parliamo di micro-influenzatori, non di top-influencer, celebrieties, fashion blogger, VIP ingaggiati e pagati per produrre sui propri canali sponsored content. I micro-influencer sono utenti con una fan base che non supera di solito i 10K followers ma che è attiva e partecipativa; in molti casi, infatti, l’engagement rate è inversamente proporzionale alla numerosità della fan base.
Se trovare un ago in pagliaio non è semplice, allo stesso modo intercettare un potenziale cliente tra un milione di follower è più complesso che farlo all’interno di una fan base di 2K targettizzata e coinvolta. Contenuti credibili e di valore, fan base interessate, engagement e conversion rate mediamente alti, senso d’appartenenza e costo di ingaggio contenuto: questi fattori rendono i micro-influencer, se valorizzati senza snaturarne l’essenza spontanea, dei preziosi alleati e ambasciatori del brand.
Continuiamo a parlare di condivisione, questa volta di dati.
Nonostante il tema della privacy sia molto caldo, soprattutto rispetto alle informazioni personali, e nonostante i consumatori si dimostrino sempre più data-savvy e data-wary, la promessa di un’esperienza migliore li rende più disponibili a condividere i propri dati.
Per capire il valore di tutto questo però è importante cogliere quanto la qualità del dato sia cambiata.
Non si parla di un aggregato di informazioni, un database di nomi e caratteristiche demografiche come l’età il sesso, la provenienza o la professione.
Il dato oggi è vivo, è un flusso, che possiamo seguire e analizzare real-time, che diventa quanto più prezioso quanto meno è aggregato. Video, foto, click, conversazioni, contenuti ed “eventi” generati dagli utenti in tutte le piattaforme e device che hanno a disposizione: tutto questo è fonte di dati.
Gli utenti sono disposti a farsi seguire nel loro journey, condividendo in tempo reale preziosissime informazioni, ad una condizione: che queste vengano utilizzate per loro, per rendere la loro esperienza più semplice, più veloce, più piacevole perché personalizzata secondo le loro specifiche esigenze.
L’aspettativa è alta, la risposta è nella tecnologia e nella capacità di brand e aziende di rispondere tempestivamente. Quando parliamo di risposta tempestiva stiamo parlando di contenuti personalizzati, annunci, servizi, prodotti e promozioni, di un’esperienza unica.
Un’opportunità preziosa per brand e consumatori, non tutti però se ne sono già accorti.
A puntare i riflettori sul tema l’iniziativa di Kaspersky Lab, società di cyber security, che ha aperto a Londra un “Data Dollar Store”. Il nome non lascia nulla all’immaginazione; si tratta esattamente di questo, un negozio in cui la moneta tradizionale viene sostituita dai dati personali dei clienti.
Una provocazione senza dubbio, ma non tutti gli utenti forse sanno che i dati personali di 10.000 di loro (nome, età, etnia, livello di istruzione) condivisi spesso inconsapevolmente e senza ricevere nulla in cambio, valgono mediamente 5.139 euro.
Un processo già in atto dunque, del quale è importante diffondere consapevolezza. Una nuova moneta virtuale: non si parla di BitCoin ma della moneta “personale”.
Di fronte al fenomeno brand e aziende non avranno più scuse: le esperienze dovranno essere costruite ad personam.
Il dato dunque è risposta e possibilità. Il dato è il motore delle principali innovazioni tecnologiche e anche linfa dell’Intelligenza Artificiale; dal machine learning al deep learning, macchine in grado di imparare senza essere programmate a farlo che si trasformano in macchine che non emulano più ma riescono a prevedere.
Il futuro immaginato da Fritz Lang in questo scenario non sembra più fantascienza. Lo sviluppo di software sempre più sofisticati, di robot pensanti in grado di apprendere e insegnare a loro volta renderà obsolete gran parte delle attuali pratiche e del lavoro umano per come lo intendiamo oggi? La risposta è scontata, la tecnologia è la base del cambiamento. Quello che dobbiamo fare oggi è chiederci come potrà cambiare il nostro lavoro e come potremmo farlo meglio, come utilizzare il codice per migliorare la vita delle persone: i futuri possibili sono infiniti.
Intelligenza artificiale, interfacce utenti ottimizzate e conversazionali, hanno già cambiato il nostro modo di interagire, ad esempio con i nostri smartphone.
Non è una novità, basti pensare a Siri di iOS o a Google Assistant, assistenti personali presenti oggi anche nelle nostre automobili e nei nostri elettrodomestici, in grado di guidarci e di rispondere ai nostri comandi.
La ricerca vocale, ossia la capacità del motore di ricerca di trasformare il linguaggio umano in query di ricerca, non è un più trend: oggi è una realtà per più del 20% delle ricerche da mobile su Google. Entro il 2020 si stima che il 50% delle ricerche web avverranno senza necessità di utilizzare lo schermo, semplificando la ricerca in meno tempo, senza scroll, estendendo e amplificando l’esperienza degli utenti.
Sarà quindi la voce delle persone a guidare la SEO del futuro.
Non più keyword secche ma query sempre più vicine al linguaggio natural, long tail esplicative, question-words, con dettagli e sfumature.
La tecnologia e le strategie digital del futuro parlano la nostra stessa lingua.
Esperienze ottimizzate, personalizzate e sempre più immersive, “aumentate” da una tecnologia ogni giorno più innovativa. Un mondo scritto a codice che ci mostra orizzonti sino a prima solo immaginati.
La porta d’accesso a questi mondi fantastici è nella nostra tasca e si chiama smartphone.
I big dell’innovazione ne hanno capito le potenzialità da qualche tempo, le applicazioni possibili sono infinite, i dispositivi, come l’ultimo arrivato in casa Apple, nascono con un’innata vocazione per l’AR.
Cos’è la realtà aumentata? Un ponte che unisce la dimensione fisica e quella digitale. È un senso in più, il super potere del teletrasporto, viaggiare nel tempo ma anche utilizzare oggetti senza averli tra le mani e molte delle cose che sognavamo di poter fare da bambini.
Dietro a tutto questo un’opportunità per i brand di far vivere alle persone esperienze memorabili. Le applicazioni spaziano dal gaming e l’entertainment, allo smart-working, la formazione, la progettazione, al testing di prodotti e servizi.
La potenza di questa tecnologia? Nulla di più usabile, basta guardare.
Contenuti umanizzati, personalizzati, pertinenti e contestuali, piattaforme conversazionali, device intelligenti, esperienze aumentate: questi gli elementi alla base della relazione tra brand e utenti.
Il futuro è qui, i trend sono già nel passato e la sostanza è sempre la stessa: connettere brand e persone, le possibilità oggi sono infinite, basta vederle.