“Content is king”, si sa, potrebbe essere tranquillamente il claim del mondo digital di oggi. Lo abbiamo sentito e letto ovunque. Negli speech agli eventi, nei blog di settore, in cui questa espressione compare nel titolo di almeno un articolo – questo non fa eccezione. Ed è effettivamente così. Il contenuto è il regnante del web. Tutti creano contenuto, dalla influencer con una stories su Instagram all’anziano che scrive uno stato sgrammaticato su Facebook.
Il contenuto è qualsiasi cosa che venga veicolato nel web. Questo può assumere le forme più varie: testo, audio e video. È particolare osservare come queste tre forme stiano diventando sempre più “ibride”: non è insolito leggere un articolo guardando un video, attraverso il nuovo format di video-articoli molto diffuso sui social, come abbiamo raccontato anche in CIRCLE#0 di Gushmag. Questa ibridazione avviene perché il contenuto più ingaggiante per un ampio pubblico è senza dubbio il video, con la sua dinamicità e flessibilità.
Video-articolo pubblicato da Circuit Breaker
Ma chi crea contenuto come lavoro? Chi sono i veri specialisti del web content editoriale? Abbiamo voluto studiare il settore per cercare di fare un po’ d’ordine.
Vogliamo focalizzarci su quelle aziende che creano un contenuto editoriale, scritto – anche se spesso si fa accompagnare da video – e che sono native di internet, ovvero non discendono da testate precedentemente esistenti su carta stampata.
È complesso restringere l’area di azione delle digital media company intese come piattaforme di creazione di contenuto editoriale online. In un ambiente fluido come quello di internet è difficile limitare, definire: tutto è in continuo mutamento, e ogni giorno nascono nuovi tipi di contenuto.
La pubblicità è, da sempre, la prima fonte di ricavo per il giornalismo, e, con il web, le cose “non sono cambiate” – anche se sono cambiate del tutto. Le digital media company di oggi, infatti, sebbene basino il proprio successo e la propria sostenibilità economica sulla pubblicità, sono mutate rispetto ai classici media.
Diversamente rispetto alla vecchia carta stampata, le digital media company focalizzate su contenuti editoriali basano il proprio business model su un altro elemento rispetto all’acquisto e alla distribuzione di quel contenuto. La pubblicità è il primo vettore di ricavi delle testate online. Esso è altamente integrato nelle digital media companies anche attraverso la creazione di team dedicati al native advertising, contenuti sponsorizzati dai brand. La completa integrazione di questi tipi di contenuto crea una forte sinergia di efficienza che segna il vantaggio competitivo rispetto al classico business editoriale.
Lo sposalizio tra pubblicità e contenuto porta la pubblicità ad un livello più alto rendendolo più appetibile e interessante agli occhi del lettore. Infatti, l’elemento che contraddistingue il successo di una piattaforma si basa proprio su quello che è capace di regalare agli utenti: se i contenuti sono interessanti, strutturati, scritti bene e su temi rilevanti, godrà sicuramente del meritato successo.
Provando a definirla, possiamo dire che una digital media company è un’azienda che produce contenuti per il web e li veicola attraverso di esso. Ovviamente, le definizioni lasciano il tempo che trovano in un mondo così vario e mutevole come quello del web. Può invece risultare più interessante evidenziare quali siano i principali player del settore. Guardando al mondo statunitense possiamo trovare diverse digital media company native di internet che hanno attirato l’attenzione negli ultimi anni. Vox media, Vice Media e Bleacher Report sono piattaforme d’informazione – dalle news, passando per lo sport, fino all’intrattenimento puro – pronte a spiccare il volo, avendo ottenuto vari e numerosi investimenti da grossi gruppi e stanno crescendo sia in termini di visibilità che di ricavi pubblicitari.
Sebbene non sia la più grande tra le digital media company è interessante analizzare come Vox Media sia arrivata ad essere una piattaforma di otto brand riconosciuti e seguiti in tutto il mondo, divenendo il “simbolo” di questo nuovo mondo editoriale.
Tutto ha inizio nel 2002 con la creazione di SportsBlogs da parte di Jerome Armstrong, Tyler Blezinsky e Markos Moulitas. I 2 soci creano “semplicemente” un blog sportivo il quale, presto, diventerà un aggregatore di vari altri blog sportivi, prendendo il nome di SB Nation (tutt’ora facente parte del portafoglio di brand editoriali di Vox Media). Nel 2010, ovvero otto anni dopo la sua creazione, SB Nation raccoglie 185 blog e nel novembre dello stesso anno ComScore stima che il sito attragga mensilmente 5,8 milioni di visitatori unici – segnando il record di crescita per i siti sportivi.
Nel 2011 si giunge alla creazione di un ulteriore canale e alla fondazione di Vox Media: a Novembre 2011 nasce The Verge, sito editoriale che si occupa di tech news riconosciuto come miglior sito editoriale nel 2012. Nello stesso anno, Vox lancia Polygon, sito web dedicato al gaming, per incontrare una tendenza sempre più presente nel web. Passa un altro anno ed ecco Curbed, un network blog che pone al centro le tematiche immobilari. Ad aprile 2014 ecco comparire anche il sito omonimo del gruppo: vox.com è online, ed è un sito di news. La famiglia si chiude nel 2015 con l’acquisizione di Recode, un ulteriore sito dedicato alle notizie del mondo della tecnologia fondato da Walt Mossberg – guru dell’editoria tecnologica – e Kara Swisher. E infine Eater, il celebre sito dedicato al mondo del food.
La continua e costante creazione di nuove piattaforme non sottendono solamente una spiccata tendenza alla crescita e allo sviluppo di un portafoglio di brand strutturato, ma sono soprattutto possibili grazie al coinvolgimento di grandi professionisti dell’informazione, basti pensare all’editor-in-chief di Vox.com, Ezra Klein, ex editorialista del Washington Post, o a Walt Mossberg, editorialista del Wall Street Journal, e a Kara Swisher, giornalista del Wall Street Journal e co-executive editor di All Things Digital (chiuso nel 2013).
I punti di forza di un gruppo come Vox Media sono molteplici. Il fatto che grazie alle sue diverse testate riesce a coprire varie tematiche, proponendo un’offerta diversificata ai suoi lettori che soddisfa i “gusti e gli interessi” di tutti, lo pone in vantaggio rispetto ai propri competitor. La struttura ad umbrella brands di Vox media permette proprio questo: ogni brand viene percepito come un leader nel suo campo, proprio perché – almeno a livello di identità visiva – non fa parte di una realtà più ampia. Un altro componente che contribuisce alla fama del gruppo, è il CMS (content mangement system) proprietario denominato Chorus. Grazie ad esso i siti di Vox Media godono di un forte impatto visivo, una user experience “tailor made”, una fortissima integrazione orizzontale, e, favorisce l’integrazione con le ads pubblicate, sia che esse siano display, sia, e soprattutto, nel caso di native advertising.
Vox Media – Chorus for Advertisers
Il successo di Vox media è inoltre testimoniato dagli investimenti che ha ricevuto nell’ultimo anno: NBC, l’ente televisivo americano, parte del gruppo Universal, ha investito 200 milioni di $ nella piattaforma, portando il totale degli investimenti ottenuti alla straordinaria cifra di 560 milioni. Allo stesso modo, un altro gruppo editoriale digitale, Vice Media, – celebre per la propria proposta di giornalismo d’assalto e reportage – ha ricevuto 400 di investimenti da parte di Walt Disney e 70 milioni da parte di 21st Century Fox.
Ciò sottende come i grandi centri media sono molto attenti a queste realtà, e, come sta succedendo con Buzzfeed (che è in fase di takeover sempre da parte di NBCUniversal), sono pronti ad acquisirli per raggiungere un nuovo pubblico.
Il confronto con l’Italia è a questo punto d’obbligo. Sebbene i grandi media “tradizionali” siano bloccati dalla loro struttura rigida e altamente ancorata ad una legacy organizzativa “classica”, ci sono diversi casi interessanti, che possono fare eco anche ai grandi gruppi statunitensi. Triboo, Netaddiction e Banzai (ora acquisita da Mondadori) sono tra le più interessanti piattaforme di digital media company editoriali del panorama italiano. Sono tuttavia considerate molto piccole rispetto ai colossi tradizionali. Ecco perché la prima parola che descrive il settore in Italia è “nicchia”: sono player di nicchia perché si rivolgono a pubblici che possono avere interessi peculiari, e che quindi domandano un contenuto particolare, ma che non possono convogliare un grande pubblico – anche se le cose si stanno mettendo bene per loro.
Il secondo segmento del settore può essere descritto dalla parola quantità. Il gruppo Espresso e RCS media group sono solo alcuni dei grandi gruppi editoriali italiani che troneggiano con le loro piattaforme sul web. Repubblica.it è il sito più vistato d’italia (18.3milioni di visitatori/mese a gennaio 2017), il Corriere si attesta di poco sotto con 10,3 milioni /mese (a gennaio 2017). Questo ovviamente significa solo una cosa: i giornali tradizionali, grazie alla loro brand awareness riconosciuta, sono tra i più consistenti creatori di contenuti del paese. Tuttavia, l’offerta proposta dai media tradizionali in questione si basa su articoli di basso spessore, in forma molto corta, di certo apprezzabile da un certo tipo di audience, ma rasentando l’assenza di contenuto e, a volte, mettendo in atto tecniche di click baiting, che rischiano di “imbrogliare” l’utente, creando un’aspettativa e, spesso, disattendendola.
In tutt’altra direzione, invece, si sono mossi alcuni player, tra cui Condé Nast con la sua piattaforma web Condé Nast Live o Mondadori. Entrambi hanno costruito un’impalcatura su cui incastonare i propri brand media editoriali. La proposta che ne risulta è ampiamente orientata alla soddisfazione dell’utente: il layout è curato, gli articoli sono strutturati e scritti con dovizia, le immagini e l’esperienza in toto sono godibili. Questo perché l’attenzione è posta sul pubblico che fruisce quel contenuto, e gli editori lo sanno: se chi legge è soddisfatto, ritorna e ritorna ancora. La parola che può racchiudere quest’ultimo segmento è qualità, sottolineando come la costruzione di contenuti di valore che arricchiscono il proprio pubblico dovrebbe essere la prerogativa di chiunque produca un contenuto online.
Non esiste di certo una ricetta perfetta per la piattaforma migliore, ma per ora stiamo vedendo che chi mette al centro della propria esperienza di brand il proprio pubblico, le persone a cui si rivolge, ha la miglior resa.
Sta ai nuovi editori nativi digitali creare la nuova editoria, e solo in questo modo anche i grandi potranno capire la direzione da intraprendere.