Matteo e io abbiamo partecipato allo IA SUMMIT 2007 nella frizzante e soleggiata cornice di Trento, purtroppo per la sola giornata di venerdì 16 novembre.
Gli interventi sono stati molti e abbiamo potuto verificare quanto ampi siano gli ambiti in cui l’architettura dell’informazione è coinvolta. Molti dei relatori hanno inquadrato l’ambito di lavoro della architettura dell’informazione (d’ora in poi, AI) in termini di innovazione.
Cerchiamo di sintetizzare alcuni degli interventi dei molti presentati.
Introduzione di Gianluca Salvatori, Assessore alla Programmazione, Ricerca e Innovazione
L’introduzione dell’assessore ha inquadrato in senso generale come l’AI sia un metodo-chiave nell’ambito dei processi di innovazione.
Lo speech si muoveva tra due poli tematici: i processi di re-ingegnerizzazione e la re-ingegnerizzazione dei processi, declinati su tre esempi.
Il primo: le aziende nel tempo re-ingegnerizzano i propri processi: l’assessore ha citato due casi speculari: la Ford di inizio secolo (il cui processo di produzione partiva sin dai boschi di proprietà, da cui si ricavava il legno necessario per fondere il ferro per ricavare l’acciaio), e la odierna Apple, che non produce nemmeno una vite di un Ipod.
Tale processo di re-ingegnerizzazione spinge le aziende a fare solo quello che sanno fare bene, spostando al loro esterno tutti i processi di produzione.
Il secondo: il processo di estrazione delle conoscenze tacite dell’individuo.
Le conoscenze per esempio di un artigiano vengono a poco a poco estratte e digitalizzate, in modo da poter essere diffuse e rese disponibili a tutti gli attori di un processo produttivo.
Questo processo viene storicamente colto meglio dal privato piuttosto che dal pubblico, e dagli Stati Uniti prima che dall’Europa.
Il terzo: ci possono essere due approcci verso l’AI. Uno di tipo ingegneristico: tutto si può ridurre a una questione di problem solving. Da questo punto di vista l’AI cerca soluzioni ai problemi che emergono.
Questo approccio tuttavia non tiene conto della questione dell’innovazione: l’innovazione richiede di comprendere quali problemi, quali novità un contesto richiede, problemi spesso non apertamente manifesti. Il secondo approccio all’AI è quindi di tipo interpretativo: il problema, piuttosto che essere posto di fronte, va estratto dalla situazione concreta. All’inizio non c’è il problema ma il contesto.
L’AI non è quindi una disciplina lineare ma un metodo che riguarda l’interazione di diversi soggetti, che tramite processi di interpretazione definisce un contesto e definisce il problema.
L’innovazione non è perciò “fare qualcosa di nuovo” ma, nell’ambito del contesto in cui si lavora, è “tirare fuori i problemi” e risolverli in modo condiviso.
L’AI si muove tra la ricerca (che è la produzione di nuova conoscenza) e l’innovazione (che è l’uso di nuova conoscenza).
L’introduzione dell’assessore da un lato dà conto dell’ampiezza del dominio dell’AI, dall’altro ci ha colpito perché non sembrava che a parlare fosse un politico, ma il CEO di una azienda 2.0 :)
La competenza trentina è stata particolarmente palpabile anche nella qualità del buffet, ricco e gratuito, come del resto la partecipazione al convegno.
Tutto lo speech di Eric Reiss (Invention, Innovation, and the Future of IA) si è incentrato sul concetto di innovazione.
Cos’è l’innovazione?
Reiss è partito col dire cosa non è.
Il relatore ha quindi articolato alcune leggi relative all’innovazione.
1° legge: l’innovazione è rispondere a un problema, facendo attenzione al fatto che la soluzione ad un problema spesso genera nuovi problemi.
2° legge: le innovazioni hanno conseguenze inattese. A questo proposito Reiss ha raccontato un aneddoto.
Durante la guerra coloniale in India, attorno al 1850, i fucili utilizzati dai soldati inglesi erano i rifle, che richiedevano numerose fasi per essere ricaricati. In particolare, le fasi di ricarica, di compressione della polvere da sparo e di lubrificazione richiedevano che i soldati stessero pericolosamente in piedi per poter ricaricare il fucile.
Una delle innovazioni apportate fu un grasso animale contenuto in una specie di bustina, che poteva essere aperta con i denti dai soldati, riducendo i tempi di ricaricamento.
Purtroppo, i soldati alleati agli inglesi, di religione musulmana, non potevano certo rischiare di ingoiare del grasso animale durante il combattimento.
La sconfitta degli inglesi, secondo Reiss, cominciò già allora, ben prima di Gandhi.
L’innovazione, sembra dire Reiss, va intesa in modo olistico: è sbagliato sommare meccanicamente una soluzione a un problema per annullarlo, senza tenere conto di come la soluzione si rapporta a tutti gli altri elementi del contesto.
Reiss quindi ha brevemente approcciato il tema dello User Centered Design, affermando che in realtà si dovrebbe parlare di User Driven Design: l’utente non è un corpo estraneo al processo di design, che sfortunatamente bisogna considerare, ma dovrebbe essere direttamente incorporato nel processo.
3° legge: innovare non è sempre necessario, se c’è già qualcosa che funziona.
4° legge: chi innova conosce sempre le regole. Una legge bellissima, secondo me. Molto spesso chi pretende di introdurre novità in realtà semplicemente non conosce le regole tradizionali che pretende di innovare. Detto in altri termini: l’innovatore deve essere competente.
5° legge: le soluzioni innovative non necessitano di istruzioni (Reiss citava il caso di un aeroporto in cui lo speaker parlava di “port” invece di “gate”).
6° legge: Reiss termina dicendo che gli inventori competono, mentre invece gli innovatori devono collaborare, tema ripreso anche da Alberto Mucignat al termine del suo speech.
Reiss esemplifica efficacemente il “ciclo di vita” dei processi innovativi con questo schema:
Di grande interesse anche lo speech di Jess McMullin di nForm: The Business of Experience.
È sempre ammirevole la franchezza esplicita con cui gli americani affrontano le questioni (anche se, per essere precisi, McMullin è canadese): nella presentazione proposta dal relatore compare a un certo punto una slide con scritto “cash” a caratteri cubitali, e un bigliettone enorme da 500 euro.
McMullin espone concezioni quali: “i limiti sono opportunità”; “the right solutions for the right problems”; la vendorship: “do more to matter more”; “pill-back the layer”: chiedersi continuamente perché e arrivare al nocciolo dei problemi.
McMullin parte dall’assunto che, se desideriamo incrementare il business, dobbiamo accrescere la nostra influenza. Ma come accrescere la nostra influenza? Tramite queste fasi (da notare l’acronimo composto dalle iniziali):
Understand
Solve
Evaluate
Refine
Lo speech di McMullin prosegue nella trattazione degli aspetti che devono legare direttamente l’AI con il business: gli obiettivi “umani” dell’AI (legati essenzialmente al Return On Experience) devono trovare un punto d’incontro con gli obiettivi di business (legati essenzialmente al Return On Investment), in un’area dove si crea il valore per l’utente e dove contemporaneamente gli esperti di IA possono colloquiare con gli esperti di business.
Un altro tema di estremo interesse è relativo al “design maturity”. McMullin presenta vari gradi di consapevolezza del design di un prodotto, che partono dall’assenza di consapevolezza fino all’attenzione al modello mentale del suo utilizzatore. Per dettagli è disponibile un PDF dal suo blog.
Un altro tema essenziale per l’esperto di IA è la business fluency, cioè la necessità di padroneggiare la terminologia del mondo del business e dei modelli di riferimento: price, margin, speed, return, growth; bisogna quindi conoscere il business dei propri clienti, compresi i problemi e rischi che lo caratterizzano.
In conclusione, tornando al problema iniziale di come accrescere la nostra influenza, McMullin suggerisce come modello esemplificativo di trovare un partner aperto alle novità, lavorare su un piccolo progetto pilota, diffondere le idee sul progetto a tutti. McMullin crede che molto spesso le persone aperte alle novità sono proprio gli esperti di IA e di user experience.
Di diretto interesse per TSW lo speech di Alberto Mucignat “SEO e AI”.
Lo speech ha efficacemente sorvolato i punti di contatto tra le due discipline, individuando nella trovabilità il trait d’union tra sito web, utente e motore di ricerca.
Alberto ha opportunamente notato come i motori di ricerca siano lo strumento più utilizzato per raggiungere un sito web, e da questo punto di vista, come già affermato da David Weinberger allo IAB Forum, Google è di fatto l’home page dei siti web. Da ciò deriva la conseguenza che molte delle visite ai siti web non passano per l’home page del sito, ma cominciano in una delle qualunque pagine interne le quali, lato IA, devono essere attrezzate per essere ciascuna una sorta di home page introduttiva al sito.
Seguono alcuni esempi di buona pratica di IA che ha ricadute benefiche per la SEO, per esempio la necessità di non creare pagine cieche per gli utenti e gli spider dei motori di ricerca. Interessante anche la notazione per cui la IA può imparare molto dalla web analytics: Google Analytics è un esempio di come si possa ricavare con molta semplicità il dato relativo alle aree del sito più visitate, dato estremamente importante in sede di revisione dell’AI.
La conclusione di Alberto ricalca quanto ci siamo detti nel pomeriggio prima del suo intervento: tra SEO e IA ci sono numerosi punti di contatto, e anzi posso confermare che fare SEO significa sempre più spesso rivedere la struttura di contenuto e di navigazione dei siti oggetto di promozione, lavorando quindi sull’AI.
Lavorare anche per lo spider dei motori di ricerca significa tenere conto di un agente molto poco evoluto, al quale è comunque essenziale permettere una navigazione completa e razionale.
Il terreno comune tra SEO e AI certamente esiste già: come detto da Reiss, in quanto innovatori è necessario collaborare.
La giornata di venerdì si è conclusa con l’intervento di Peter Van Dijck: “Global IA: How to Organize Global Websites”.
Intervento rarefatto, ha avuto il merito di dare indicazioni molto generali su cosa significhi lavorare su siti multi-nazionali. Lo speech si è organizzato attorno alcune macro-definizioni:
1. “Category are cultural”
È sufficiente osservare le prime pagine dei quotidiani online di vari paesi. Ciascuno di essi colloca in home page specifiche categorie di navigazione: la guerra civile in Bolivia, gli annunci mortuari di gente facoltosa sul NYT
2. “Locales becomes mixed”
Per esempio la pagina di Google Belgio, che presenta opzioni di ricerca in altre lingue. (“Locales” significa gruppi linguistici minori ma significativi, come gli ispanici statunitensi o i turchi di Germania)
3. “Structure mostly translated”
L’AI non sempre ha a disposizione strumenti generali validi per tutti. Un esempio è la possibilità di scorrere item in senso alfabetico. Non tutte le lingue hanno una classificazione per alfabeto, che quindi, in senso globale, non è un criterio universale
4. “Category are cultural (2)”
L’esempio in questo caso è riferito ai Maori, che stanno in questi anni recuperando un forte senso della propria passata tradizione, ragionando per categorie legate al comportamento degli antenati
5. “Global standard, local exceptions”
Google ancora una volta: nulla nel web cambia così poco come l’home page di Google, che è identica per ogni paese. Una eccezione è Google Korea, in cui la selezione delle Google Application è affidata a elementi animati (i coreani vanno pazzi per i piccoli oggetti animati)
Per concludere: un convegno riuscito e interessante, forse un poco troppo orientato agli addetti ai lavori.
Considerando tuttavia che si tratta solo della seconda edizione sono certo che diventerà un punto di confronto e discussione sempre più importante, e un luogo dove incrociare competenze.
Altre informazioni sono disponibili su Technorati e Flickr.