Storicamente il branding è stato trattato come un processo tutto interno all’impresa. L’impresa, dopo una accurata analisi del mercato, definiva il proprio posizionamento strategico/valoriale e costruiva una piano di marketing finalizzato ad andare ad occupare tale spazio nella “testa” del consumatore. Il consumatore, all’interno di questo processo, svolgeva un ruolo passivo. Il brand, in questa prospettiva, non rappresentava altro che un layer di servizio a supporto del prodotto. Un qualcosa di preconfezionato, che il consumatore acquistava e pagava insieme al prodotto.
Lo sviluppo del web ha rovesciato i termini di questo gioco.
Prima di tutto, il branding è un processo largamente esterno all’impresa. Un processo quindi che l’impresa può solo tentare di governare, ma non gestire e controllare. I motivi sono principalmente due.
Il primo è il cambiamento in corso nei comportamenti di consumo. Il consumo, come ho già avuto modo di segnalare, è sempre meno motivato da fattori di status e sempre più da ragioni identitarie. Questo significa che io acquisto un prodotto e/o servizio per dimostrare ciò che veramente sono e ciò in cui credo piuttosto che la classe sociale a cui vorrei appartenere. Il brand, perciò, perde la sua funzione primaria di marcare una differenza ed un territorio socio-cognitivo, per divenire strumento attraverso cui costruiamo relazioni con chi come noi si identifica con certi valori etico-morali. Questo implica che, indipendentemente dalla rete, larga parte del processo di costruzione e comunicazione dei significati di un brand resta al di fuori del controllo dell’impresa. L’unica cosa che può fare l’impresa è tentare di dare un imprinting forte al proprio brand al fine di selezionare sia al proprio interno – dipendenti, fornitori e così via – che al proprio esterno persone che si identifichino con il sistema di valori che l’impresa condivide e si propone di promuovere e diffondere. Molti di questi spazi, come ho avuto modo di dire nel seminario tenuto presso TSW sul brand, sono pubblici. È solo associandosi e promuovendo questi valori che le imprese possono sostenere – indirettamente – il valore dei propri investimenti in questa direzione.
In secondo luogo, la rete riduce i costi di ricerca, accesso e condivisione dell’informazione. Il passa parola, come molte ricerche dimostrano, è il principale mezzo attraverso cui le persone co-costruiscono il significato ed il valore del brand. La rete, da questo punto di vista, non ha fatto altro che moltiplicare all’ennesima potenza ciò che è sempre avvenuto nei contesti locali. È per questa ragione che diventa sempre più difficile vendere lo stesso brand in modi diversi – e a volte incompatibili tra loro – in mercati diversi. L’informazione circola ed è condivisa su di una dimensione mondiale. Pensare di riuscire a compartimentalizzare la gestione del brand su singoli mercati è sempre più un’utopia. Lo stesso vale per strategie finalizzate a utilizzare brand diversi in mercati diversi per lo stesso prodotto.
In ogni caso, il ruolo strategico e moltiplicativo assunto dal passa parola obbliga le imprese ad adottare strumenti nuovi per monitorare questi flussi comunicativi e di valore. È necessario, infatti, dotarsi di sistemi di monitoraggio che siano compatibili con una architettura a rete del dialogo costitutivo e costruttivo del valore. Il processo di diffusione dell’informazione non è più gerarchico. Gli influenzatori sono molteplici e sempre diversi. Non solo. Sono difficilmente prevedibili a propri. Può accadere infatti che un consumatore, che si occupa di tutt’altro nella vita, abbia un blog molto popolare e pubblichi un post sulla scarsa qualità di una esperienza avuta con una data impresa. È probabile che questo post comunque si diffonda e raggiunga il segmento core di consumatori interessati al brand.
Non è sufficiente però dotarsi di questi strumenti di monitoraggio. È necessario cambiare anche il significato che attribuiamo al loro impiego. Questi strumenti non devo essere concepiti solo come strumenti di controllo, attraverso cui cerchiamo di cogliere le lamentale al fine di gestirle prima che si trasformino in valore negativo per la nostra impresa. Questi strumenti, diversamente, devono essere concepiti come creativi, dobbiamo utilizzarli per tentare di cogliere ed interpretare i bisogni ed i desideri emergenti ed includere il “consumatore” nel processo creativo. Ecco perché anche la ricerca e sviluppo, oltre che il customer care, dovrebbe utilizzarli. Per entrare in relazione con chi poi compra i prodotti e servizi che si pretende siano pensati per lui!
Chiudo con un avvertimento, ovvero le imprese che producono beni industriali non sono escluse da questo ragionamento. Le considerazioni etico-valoriali stanno divenendo sempre più condizionanti nei processi di scelta dei fornitori. A buon intenditore poche parole :-)