Il fascino del mondo tecnologico in cui viviamo può essere spiegato in modo assai semplice. Esso, infatti, si basa su un fattore che difficilmente può essere ignorato: quello umano, fondato sull’ascolto e l’attenzione verso se stessi e l’altro. Nella realizzazione e nello sviluppo di un software, quello che emerge è che esso è un prodotto fatto da persone al fine di soddisfare al meglio i bisogni di altre e donare un’esperienza di utilizzo positiva. Come? Ponendosi delle domande ed essendo curiosi. La curiosità, infatti, non è un istinto smanioso da appagare velocemente per soddisfare il proprio ego. La curiosità è come una sensazione, è il filo conduttore che lega inesorabilmente l’uomo a qualcosa di altro oltre sé e alla percezione che ha di sé. Essere curiosi significa stare al mondo come un infante, come un filosofo. Significa essere sempre in ascolto. Ed è tramite questo approccio che la tecnologia e tutto quello che essa comporta, come la progettazione di un software, diventano partecipi di un nuovo umanesimo.
Questo preludio si può sintetizzare nell’acronimo “UX”: il primo contatto che ognuno di noi ha con la User Experience (l’esperienza dell’utente, per non usare anglicismi), avviene in modo molto naturale, perché la verità è che essa non comporta alcunché di diverso rispetto a quello che è (o che dovrebbe essere) l’approccio stesso alla vita. Un approccio fatto di domande al fine di comprendere tutto ciò che ci circonda.
Vi ricordate la prima volta che avete fatto un bucato da soli? L’ansia di scegliere il programma giusto tra tutti quelli presenti nella lavatrice avrà sicuramente fatto rimpiangere i bei momenti in cui i pensieri erano più rivolti a sporcarli, quei vestiti. Forse però questa percezione non supera l’agitazione provata ogni volta che di fronte a una porta trovate le scritte “spingere” o “tirare”. Queste sensazioni di disagio, di paura e di difficoltà, secondo Donald Arthur Norman (colui che coniò il termine User Experience nel 1993), non sono un limite dell’utente, bensì un errore da parte di chi ha progettato oggetti d’uso quotidiano senza considerare le normali attività mentali essenziali per la fruizione di un ambiente, un oggetto o un servizio.
Ecco perché lo studio della User Experience – l’insieme di attività e di analisi che ha come obiettivo capire cosa prova e cosa pensa una persona quando usa un determinato prodotto e servizio, sia esso digitale o no – è così importante nella vita di tutti i giorni ed ecco perché la UX è strettamente coniugata alla curiosità e all’ascolto di sé e dell’altro.
Dicendo “software” il pensiero può correre alla strumentistica della NASA per il calcolo quantistico, ma anche, ad esempio, al software di posta elettronica. Ce ne sono quindi di diversa complessità, di diversa natura e di diverso aspetto, anche se, tendenzialmente, le funzioni comunemente più utilizzate sono sempre le medesime. Ma perché allora c’è molta differenza tra sofwtare con funzioni simili? Sì, la risposta è l’usabilità, e quindi l’esperienza dell’utente. Farne a meno significherebbe mancare un importante obiettivo: creare un valore aggiunto per le persone che lo utilizzano.
Questo “valore” deriva da uno studio dell’esperienza delle persone e funge da spartiacque tra il successo o il fallimento di un software: se non è facile da usare, se non risolve problemi e se non è allineato ai comportamenti e alle abitudini umane, sicuramente non riuscirà a resistere all’interno del mercato. Ma dove si colloca la UX all’interno del ciclo vitale del software? Dall’inizio alla fine. Come? Affidiamoci ad un esempio pratico: immaginate di voler creare un software che vi siete immaginati nei minimi dettagli. Siete talmente tanto convinti della vostra idea che lanciate il prodotto nel mercato, senza prima chiedere a coloro ai quali sarà destinato se le loro esigenze sono state realmente accolte. Eppure, può capitare che la realtà non sia sempre all’altezza delle aspettative: il vostro prodotto non piace, non è intuitivo, non è facile da usare e, invece di semplificare la vita dell’utente, la complica. Un fallimento su tutti i fronti, per voi produttori e per i clienti delusi e quindi persi.
Il motivo? È mancato quell’approccio al prodotto o servizio che fosse accogliente, sono mancate le domande e quindi le risposte. È mancato l’ascolto sincero e la volontà di creare un prodotto per gli altri, prima che un profitto.
Proviamo, ora, ad innestare in questo processo di sviluppo una variabile: la UX. Al posto di passare subito alla produzione della vostra idea, organizzate prima una cena con 8/10 persone alle quali raccontate cosa volete realizzare. Magari, avete anche abbozzato su un foglio la pagina iniziale e il menu principale del software e lo condividete. I feedback che vi arrivano sono di diverso tipo ma molto utili: c’è chi comprende ma non condivide, chi farebbe in modo diverso, chi suggerisce una miglioria, chi cambierebbe tutto. Raccolti tutti i feedback, cosa fareste? Inseguireste la vostra idea senza pensare di cambiare minimamente strada oppure accogliereste i suggerimenti rivalutando alcuni aspetti? Anche se ascoltaste solo il 50% dei feedback ricevuti, il software finale sarebbe differente dall’idea iniziale ma, sicuramente, più vicino alle aspettative e ai bisogni di altre persone. Il risultato? La considerazione dell’esperienza degli utenti rende il vostro software più funzionale e quindi di successo.
Cosa è cambiato rispetto allo scenario iniziale? La realizzazione di un prodotto pensato per le persone e con le persone.
In TSW stiamo giusto applicando questa metodologia di coinvolgimento e partecipazione alla progettazione di un software per De’Longhi, un’app IoT che si interfacci con i loro elettrodomestici. Stiamo dialogando con gli utenti finali, le persone che utilizzano questi strumenti della quotidianità, stiamo analizzando con il nostro cliente tutti i flussi logici e stiamo svolgendo un’analisi funzionale, proprio per rendere più semplice la progettazione, non solo delle interfacce, ma anche del software in sé, quindi la programmazione. Coinvolgere le persone ci sta portando a una riduzione degli errori, a una gestione più fluida e veloce della scrittura del codice e a una riduzione delle rilavorazioni necessarie per arrivare a un software finale di successo che renda soddisfatto il nostro cliente per essersi avvicinato al mondo dei bisogni dei suoi clienti finali.
La UX diventa fondamentale e decisiva in particolar modo nella realizzazione di software “personalizzati”, ossia che rispettino particolari bisogni di una specifica categoria di utenti: gestionali, piattaforme per monitoraggio di tempi e costi, di dati, software per l’invio di documentazione ad enti, elettrodomestici gestiti da applicazioni e molto altro ancora.
In questi casi è strettamente necessario rivolgersi alle persone che li utilizzano e progettare insieme. Sembra facile e lo è, ma bisogna conoscere a fondo tutti gli strumenti che la UX ci mette a disposizione. Come si fa quindi il design con gli utenti? Esistono diversi modi di organizzare i processi di progettazione. Il processo di “service design” è sicuramente compatibile con le metodologie più flessibili, quali Agile e Lean, che spesso caratterizzano processi di produzione di tecnologie digitali importanti. È possibile strutturare il percorso di progettazione per sprint di lavoro iterativi e incrementali svolgendo dei cicli rapidi di ascolto dell’utente, ideazione di soluzioni, prototipazione e continuando a iterare fino alla realizzazione del prodotto.
Per un nostro cliente del settore finanziario per esempio abbiamo realizzato un software dedicato al mondo dei commercialisti, tributaristi, esperti del diritto del lavoro e notai, con l’intento di supportarli nella realizzazione di un ambiente dedicato alla gestione e all’invio delle pratiche che quotidianamente vengono loro sottoposte.
Sin dalle prime fasi del ciclo di sviluppo del software abbiamo pensato all’utente finale e al suo coinvolgimento attivo: dall’esplicitazione dei requisiti, alla loro analisi, fino all’analisi del dominio del software, attività basilari per una prototipazione “human centered”, concentrata su chi utilizza il software. Abbiamo chiesto direttamente a queste persone di supportarci nella validazione dell’output delle analisi, prima di procedere con la realizzazione del codice, affrontando con loro una serie di test e di attività che ci hanno permesso di correggere e migliorare l’analisi inizialmente realizzata.
Il progetto si è basato su un approccio iterativo incrementale caratterizzato da:
Invitare le stesse persone che useranno un software a partecipare alla sua realizzazione diventa quindi un piacere sia per loro che si sentiranno compresi, accolti e importanti, sia per gli artefici stessi, che riusciranno a capire i propri clienti, oltre a individuare in tempi brevi i reali obiettivi da raggiungere, ridurre gli errori in fase di progettazione, accorciare i tempi di realizzazione e quindi contenere i costi.
Dunque, ricapitolando: per realizzare dei software ben funzionanti, è necessario creare, fin dalle prime fasi di progettazione, dei ponti tra i chi costruisce il prodotto/servizio e le persone che ne faranno esperienza. Di fondamentale importanza sarà riscoprire il piacere di sedersi insieme, parlare, ascoltare e condividere. I cosiddetti touchpoint (punti di contatto) che emergeranno in quel momento, dovranno essere considerati nel progetto, tenendo conto di importanti fattori legati all’utente: la usabilità, la chiarezza, l’estetica, la piacevolezza e le funzioni.
Tuttavia, considerando che quello della User Experience è un rapporto tra individui, non bisogna dimenticarsi anche delle esigenze di chi offre il servizio. Questo, spesso, si riconduce alla necessità di innescare processi di lavoro diversi rispetto a quelli tradizionali, processi che sono sicuramente migliorativi per l’ecosistema aziendale. Chi si occupa di UX (nei software e non solo) contribuisce infatti a progettare relazioni, connessioni, processi ed esperienze, donando al prodotto e al brand un valore aggiunto: quello umano.
Articolo scritto in collaborazione con Elena Toniolo.