Da che mondo è mondo, tra le “community” più attive e intraprendenti troviamo loro: le mamme.
Diciamocelo, essere madre è una condizione che – anche solo per motivi di ordine pratico – clusterizza parecchio.
Il motivo è lampante: nella loro vita ci sono delle personcine che, soprattutto se di tenera età, dipendono da loro in tutto e per tutto, a cominciare da questioni meramente operative fino ai massimi sistemi educativi ed emozionali.
Ma veniamo al punto: cosa è significato gestire “l’emergenza covid-19” per le mamme lavoratrici?
Abbiamo raccolto qualche esperienza.
L., human resources specialist, mamma di V., 10 mesi.
“Il tema madri e smart working è molto italiano e limitante, mi piacerebbe si parlasse di genitori e smart working. Inoltre, il concetto di smart working non deve essere confuso con il telelavoro.”
L., assistente polizze assicurative, mamma di M. e F., 3 e 7 anni.
“Una mattina mio figlio mi ha chiesto – mamma ma vai a lavorare con le ciabatte? -”
V., responsabile marketing e comunicazione, mamma di C. e L., 4 e 7 anni.
“Grazie alla flessibilità che mi ha saputo offrire la mia azienda, e grazie all’aiuto dei miei, siamo usciti da quest’esperienza in modo quasi indenne, apprezzando la condizione di famiglia vissuta al 100%. Certo, ho voglia che i miei figli vivano la socialità in modo naturale, e di avere degli spazi riservati a me stessa. Con le altre mamme ci siamo spesso scambiate messaggi di incoraggiamento, soprattutto per seguire le lezioni scolastiche online.”
C., human resources specialist, mamma di P., 3 anni e mezzo.
“Mi sono sentita spesso frustrata e in difetto rispetto alle colleghe senza figli, ma ho riscoperto il valore dello stare a casa e mio figlio, per la prima volta dopo tanto tempo, ha potuto godere dei suoi genitori a casa senza essere palleggiato tra asili e nonne”
Ascoltando queste mamme, e vivendo io stessa nella condizione di madre lavoratrice, vi racconto di seguito i punti principali che hanno segnato l’esperienza Covid-19, ma che in realtà potrebbero essere estesi al mondo del lavoro in generale.
Diventare madri vuol dire anche “scendere a compromessi”.
Quando poi si è una madre lavoratrice ai tempi del Covid-19, allora il compromesso entra a far parte di ogni logica quotidiana.
Dal latino: “compromissus” significa letteralmente “obbligato, promesso insieme”, composto da cum (insieme) e promissus (promesso).
L’etimologia quindi rinnega l’accezione negativa che il termine spesso acquisisce: compromesso significa accordo, impegno reciproco assunto da più persone di procedere a un’azione d’interesse comune.
Scendere a compromessi per una mamma lavoratrice significa poter riuscire a coniugare il tutto senza sentire costantemente il peso della colpa e della frustrazione, significa accettare il fatto che il valore di una persona deve essere considerato a tutto tondo.
Non è umanamente possibile pretendere di dare il 100% su tutti i fronti: lavoro, casa, figli, marito, amici, parenti, …
“Ci sono stati giorni nel periodo di lockdown in cui l’unica frase che riuscisse a consolarmi era – non puoi fare di più, accetta il compromesso di essere madre!”.
È evidente che la promessa (promissus) si stabilisce tra l’essere madre e l’essere altro (una donna, una moglie, una professionista, …).
“Mi trovavo in contemporanea ad indossare almeno due ruoli, è stato destabilizzante”.
Il luogo in cui si vive, in cui si crescono i figli, in cui ci sono pile di biancheria da piegare e sistemare, in cui ci sono giochi dei figli sparsi più o meno ovunque, in cui i rumori di sottofondo corrispondono spesso alle sigle dei cartoni o ai litigi fraterni, quello stesso luogo diventa anche – contemporaneamente – il luogo delle (continue) call, degli incontri da remoto con i clienti e della famigerata concentrazione che dovrebbe caratterizzare il tempo del lavoro.
La stessa sovrapposizione di realtà avviene nella donna, che è madre e professionista, a tratti casalinga e intrattenitrice, inventrice di giochi o pacificatrice di animi avversi, educatrice e maestra (soprattutto se i figli in questione sono in età scolastica).
“I miei colleghi stanno dando il meglio, stanno approfittando del tempo lento della quarantena per partecipare a corsi di formazione, leggere, approfondire, aggiornarsi. Io? Non faccio in tempo nemmeno a farmi la doccia.”
Tutte le madri intervistate hanno confermato che durante il periodo di quarantena, soprattutto nella prima fase di chiusura totale, sono state inghiottite dal fattore tempo.
Le solite 24 ore dovevano contenere in contemporanea molte più attività del solito. Facciamo un esempio verosimile.
Nella quotidianità ai tempi del covid, una mamma è fortunata se, quando si alza, i bambini dormono ancora: riesce a fare colazione, sistemare la cucina, predisporre il pranzo, dedicare qualche minuto a se stessa, e poi iniziare a lavorare. Ecco che si sveglia il numero 1 e ha una giornata storta, vuole stare con la mamma perché sa che è a casa, vuole lavorare con la mamma, vuole aiutarla (“mamma, posso schiacciare io nel computer?”).
Dopo poco si sveglia anche l’eventuale figlio numero 2, che vuole uscire, a tutti i costi. Madre e padre si spartiscono i capricci della prole fino a trovare qualche compromesso (vedi punto 1), grazie al quale la madre riesce a lavorare “tranquilla” per circa 2 ore. Poi arriva il turno del padre, cambio genitore. Poi arriva il momento del pranzo. La scelta di cosa cucinare e come mettere d’accordo tutti i membri della famiglia. La cucina da sistemare. Il figlio piccolo da addormentare. L’altro da intrattenere (senza ricorrere a dispositivi e cartoni h24). La call importantissima di un progetto. La scadenza già posticipata. Le mail da mandare. La spesa da ordinare e ritirare. I giochi da inventare. La cena a cui pensare. La cucina nuovamente da sistemare. Il soggiorno oramai diventato una giungla. I bambini da lavare e soprattutto addormentare.
Poi la madre legge un messaggio su Teams:
“Partecipi al webinar delle 18?”
E si interroga quotidianamente sulle priorità della vita.
Quasi tutte le madri ammettono, senza dubbio alcuno, che nella scala di priorità vengono i figli prima di ogni altra cosa.
Ma attenzione: questa affermazione è spesso fuorviante perché non significa che la donna, una volta diventata madre, non abbia più interesse verso attività che non siano figli e famiglia. Non significa nemmeno che l’ambizione professionale svanisca o che le potenzialità di crescita nel mondo lavorativo si annullino.
Avere dei figli certamente costringe a una maggiore organizzazione e a una selezione attenta e quotidiana delle priorità, e porta a dare valore alla qualità del tempo piuttosto che alla quantità.
Ottimizzare è certamente un termine che fa parte del vocabolario delle madri lavoratrici.
Il termine, in questo periodo estremamente abusato, è spesso confuso o mal interpretato.
Uno dei principali errori è confondere lo smart-working con il telelavoro. Il telelavoro è lavorare esattamente come in ufficio, con gli stessi identici orari, ma in un altro luogo: per certi ruoli e attività è assolutamente necessario parlare di telelavoro.
Lo smart-working invece si lega a un concetto di lavoro agile e a una maggiore responsabilizzazione del professionista. È lui, in autonomia, che si pianifica le giornate e le attività in base a scadenze e priorità e in accordo con colleghi e clienti. Lavorare in smart significa introdurre flessibilità ed elasticità come modus vivendi.
Solo lo smart-working può sposarsi con una madre lavoratrice, a meno che i figli non siano all’asilo, a scuola, dai nonni, o comunque senza la madre (e il padre).
Quando ci sono i figli a casa, e si è tutti a casa, come è successo nel periodo di quarantena, il telelavoro è inapplicabile. Mentre, seppur con una certa fatica e con qualche doverosa diminuzione dei carichi di lavoro (e una totale comprensione da parte dei colleghi e del datore di lavoro!), può essere possibile per i genitori lavorare in smart.
Il numero medio di figli per donna in Italia scende ancora, attestandosi a 1,29 (dati Istat 2019): non credo che davanti a questa costante diminuzione ci si riesca a stupire. Le condizioni per le donne lavoratrici non incoraggiano certo la decisione di aver figli, per lo meno non a un’età biologicamente conforme.
Il graduale posticipo della riproduzione, nonché aumento di donne senza figli, è riconducibile ai tempi universitari, alle lauree magistrali, ai master, ai numerosi stage, che spesso tardano a trasformarsi in contratto di lavoro vero e proprio: nel 2020 la prima esperienza lavorativa potrebbe iniziare a 28 anni, età a cui le nostre nonne avevano almeno due figli.
Poi ci sono le donne che decidono di intraprendere un’attività in proprio: per loro l’esperienza della maternità potrebbe tardare ancora, visto che sono totalmente responsabili del proprio andamento di fatturato.
La mentalità per cui nel mondo del lavoro avere figli rappresenta un “problema” si è ben manifestata durante il periodo di emergenza epidemiologica. Affermare che “è concesso il lavoro da casa alle donne lavoratrici con figli” è incompleto: il lavoro da casa con figli deve essere da considerare estremamente agile, perché non si può pensare di piazzare davanti a uno schermo i bambini per tutto il giorno o lasciare che badino a loro stessi. Per questo si deve applicare un lavoro smart, nel vero senso della parola (vedi punto 7).
Ad ogni modo, guardare esempi come quelli della Danimarca o dell’Islanda è sempre una buona cosa.
In conclusione, si può dire che l’emergenza Covid-19 abbia fatto emergere un problema ben più ampio e dibattuto e che l’Italia dovrebbe prendersi a cuore per evitare di far licenziare valide professioniste, che spesso si trovano nella condizione di dover scegliere: lavoro oppure famiglia.
Probabilmente introducendo una mentalità più flessibile, agile e aperta, si potrebbe provare ad agevolare la coesistenza delle due realtà, in modo che la donna possa sentirsi realizzata sia secondo natura, in quanto madre, sia secondo la società, in quanto lavoratrice e parte attiva di un sistema.