Il linguaggio verbale è una forma d’azione molto potente. Per questo, ha bisogno di cura e di ascolto per potersi evolvere e adattare ai cambiamenti sociali.
“Le parole che utilizziamo – scrive nel 2016 Gianrico Carofiglio nel suo Passeggeri Notturni – possono avere un impatto straordinario non solo sulle nostre vite individuali, ma anche su quelle collettive. Le parole creano la realtà, fanno – e disfano – le cose; sono spesso atti di cui bisogna prevedere e fronteggiare le conseguenze, in molti ambiti, privati e pubblici.”
Questo cosa significa?
Che mentre parliamo creiamo la realtà in cui siamo immersi, e che oggi, in un presente sempre più veloce e complesso, prestare attenzione alle parole che scegliamo di usare ogni giorno diventa decisivo nella realizzazione e nella percezione del mondo, della nostra vita e del vissuto delle altre persone. In quest’ottica, le parole non sono più solo strumenti che ci aiutano a creare connessioni, ma diventano lo specchio della società e della cultura che costruiamo attivamente ogni giorno.
Lavorare sull’uso delle parole, quindi, sembra essere il modo più efficace per permettere a processi sociali importanti come l’accettazione e la rappresentazione delle diversità di compiersi, sia nei contesti pubblici che in quelli privati. Questo succede perché la comunicazione verbale, di fatto, riesce a riflettersi e a influenzare il pensiero delle persone.
Il pensiero, infatti, è fatto di parole, le stesse che ci servono a essere “sociali” e che usiamo per definire noi stessi, le emozioni che proviamo, le persone che ci stanno intorno, la realtà che viviamo, i fatti che ci accadono e le connessioni che creiamo.
E perché parliamo proprio di inclusione? Perché è inevitabile: è un atto di responsabilità verso la società che si evolve e che si sta delineando davanti agli occhi di generazioni che, non troppo lontane da noi, hanno già messo un piede nel futuro e necessitano di fiducia per affrontare un presente che fa di tutto per ostacolarle.
Fare in modo che il linguaggio che utilizziamo risulti “naturalmente” inclusivo non è solo una questione di agire “politically correct”, ma una necessità etica e sociale. Se le parole che utilizziamo quotidianamente hanno il potere di creare la realtà, allo stesso modo vuol dire che possono sia rafforzare stereotipi e discriminazioni, che abbattere barriere e promuovere la comprensione reciproca.
E per far sì che il pensiero collettivo si evolva secondo la naturale trasformazione delle esigenze della società, è necessario che il linguaggio cambi forma insieme a essa.
Al contrario di quanto si possa pensare infatti, la lingua è dinamica e cambia così come cambiano le persone. È proprio la sua capacità di adattarsi a descrivere una realtà in costante movimento e l’interpretare con curiosità nuove norme linguistiche, che attesterà il suo stato di buona salute.
Ed è da qui che bisogna partire.
In questo senso quindi, la comunicazione inclusiva parte dall’ascolto attento delle esperienze altrui per far sì che ogni persona venga rispettata e valorizzata.
Ecco perché oggi è sempre più indispensabile prevedere strategie di comunicazione inclusiva non solo in termini di responsabilità individuale e personale, ma anche come pratica comune in settori come quello educativo, politico, pubblicitario, di marketing, etc.
Sfruttare canali e metodologie che possano arrivare a tutti con facilità e in tempi brevi, aiuta il processo di inclusione delle diversità a normalizzarsi, fino a poterne vedere i frutti nelle applicazioni legislative, nei fatti sociali e di cronaca, e così via.
Parlare e comunicare in modo inclusivo, e legittimare nuove forme di espressione che facciano sentire tutti coinvolti, aiuta questo processo a realizzarsi e a costruire un futuro sempre più accogliente nei confronti di chi lo vivrà. Ed è da oggi che possiamo svilupparlo.
Ma di cosa parliamo nello specifico? E come si fa a comunicare in modo inclusivo?
Per adottare un linguaggio inclusivo, il primo passo è mettersi in ascolto delle persone che subiscono discriminazioni. Ascoltare le loro storie, comprendere le loro esperienze e prendere atto dei termini e delle espressioni che possono risultare offensivi o escludenti può essere un buon esercizio di ascolto empatico. In questo modo è possibile superare pregiudizi inconsci e bias culturali e trovare parole che realmente includano e rappresentino tutte le identità.
Quando parliamo, la maggior parte delle volte non ci rendiamo conto delle parole che scegliamo per formulare il nostro pensiero, perché è come se ci esprimessimo con il “pilota automatico”. Insieme all’ascolto delle altre persone, quindi, è importante adottare un approccio critico, mettendo in discussione noi stessi in primis.
Analizzare quello che diciamo, quindi, e capire perché l’abbiamo detto e che modo abbiamo scelto per farlo ci aiuterà a prenderne consapevolezza. Poi è bene chiedersi: c’è un altro modo per dire la stessa cosa includendo il mio interlocutore e rendendolo davvero partecipe di questo scambio comunicativo?
Dopo aver analizzato e vagliato le alternative valide al nostro discorso, è necessario applicarle e testarne la loro funzionalità rispetto al nostro interlocutore. Inizialmente sembrerà non aver creato nessun effetto evidente, sarà “strano”, “diverso”, ma col tempo e con l’uso comune di certe espressioni tutto diventerà – finalmente- normale.
Sebbene l’italiano non sia una lingua dichiaratamente sessista, l’uso androcentrico che ne è stato fatto finora riflette comunque inconfondibili stilemi e retaggi socioculturali del passato. Ad esempio, il mancato utilizzo della declinazione femminile per alcune professioni, sebbene previsto dalla lingua italiana, riflette stereotipi che associavano determinate posizioni lavorative esclusivamente agli uomini. Termini come “ingegnere” o “avvocato” sono ancora oggi frequentemente impiegati per riferirsi a donne che svolgono queste professioni.
“Un uso più consapevole della lingua, – scrive Cecilia Robustelli nel 2013 sul sito dell’Accademia della Crusca – contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società e a una sua effettiva presenza nella cittadinanza”.
Non è una questione di grammatica, dunque, perché come abbiamo visto, anche questa muta nel tempo, ma una questione di uso culturale che si fa delle parole che stabilisce o meno l’attuazione e la determinazione di uno status, in questo caso quello femminile nel disequilibrio di potere tra uomo e donna.
Oltre alle discriminazioni di genere, esistono altre forme di pregiudizio che si manifestano attraverso il linguaggio, come l’ageismo e l’abilismo. L’ageismo è una discriminazione basata sull’età che spesso si riflette in termini che stereotipano le persone anziane o giovani, contribuendo a una visione riduttiva delle loro capacità e del loro ruolo nella società. Allo stesso modo, l’abilismo utilizza il linguaggio per descrivere le persone unicamente in base alla loro disabilità, spesso in termini negativi e limitanti.
Usare termini che sminuiscono o stereotipano le persone in base all’età, come “vecchio” o “ragazzino”, contribuisce a rafforzare pregiudizi e discriminazioni. Adottare un linguaggio inclusivo significa riconoscere il valore e la dignità di persone di tutte le età, evitando stereotipi e valorizzando l’esperienza e la saggezza delle persone anziane, così come l’energia o la creatività dei giovani.
Allo stesso modo, il linguaggio abilista discrimina le persone utilizzando termini ed espressioni che le definiscono unicamente in base alla loro disabilità. Scegliere di non dire “handicappato” o “invalido” e preferire espressioni che rispettino la dignità delle persone, come “persona con disabilità” servirà a riconoscere il loro valore e il loro contributo nella società.
Cosa fare allora, per rendere la nostra comunicazione più inclusiva? Ecco qualche suggerimento che ci aiuterà a rendere il modo in cui comunichiamo più inclusivo:
Il linguaggio inclusivo non è solo un mezzo per adempiere al rispetto individuale, ma è anche un potente strumento di trasformazione sociale. “La lingua – scrive Vera Gheno nel suo saggio La lingua non deve essere un museo. La necessità di un linguaggio inclusivo – deve evolversi e adattarsi per riflettere le dinamiche sociali in cambiamento, abbandonando la staticità di un museo per diventare un mezzo vivo e attivo di inclusione”.
Questo significa che l’uso di un linguaggio normocentrico potrebbe continuare a rafforzare le disuguaglianze esistenti, mentre un linguaggio inclusivo contribuirebbe a una cultura più equa e rispettosa della diversità.
I cambiamenti culturali e sociali passano quindi dalla lingua perché è questo l’elemento più vivo con cui l’essere umano va avanti – assegnando a noi attori parlanti, di fatto, il testimone di questa lunga staffetta verso la costruzione di un futuro più equo e libero.
Parliamo, dunque, ma includiamo ed evolviamoci. È ora!