Content strategy: un’attività che contiene le mie due parole preferite. La strategia di contenuti è il modo in cui un’azienda comunica con il suo pubblico rispondendo a specifici obiettivi di business.
I contenuti creati senza un progetto più ampio che faccia da guida sono solo parole al vento. Il fatto è semplice: senza analisi e strategia è impossibile progettare contenuti di valore per i propri clienti. La produzione deve basarsi sull’ascolto. Retorica, direte voi. Realtà, vi rispondo io.
Infatti l’ascolto non è un luogo comune o una ripetizione intenzionale che comincia a perdere di significato. Per chi si occupa di comunicazione digitale, digital marketing e più ampiamente di marketing, deve continuare a essere l’unica via possibile.
Il mio professore di marketing all’università diceva: non tentare di vendere ciò che hai prodotto, ma produci ciò che puoi vendere. Come? Indagando il mercato, ascoltando i tuoi clienti attuali e potenziali, e i loro bisogni espressi o latenti.
E questo vale anche per la comunicazione e qualsiasi attività online. Produrre contenuti autoreferenziali, che nessuno cerca e che non rispondono a un bisogno informativo, educativo o di intrattenimento, equivale a buttare via tempo e soldi.
Quindi sì. Se mi chiedete se vale la pena investire in contenuti online, la risposta è ovviamente sì. Con un big BUT che segue. Vale la pena se e solo se pensati per le persone. Anche questo per noi di TSW è familiare e ripetuto innumerevoli volte. Ma vorrei provare a raccontarvi perché non è una cosa che diciamo tanto per, ma qualcosa in cui crediamo, che ci guida.
L’ascolto è quindi l’approccio che apre e chiude una strategia di contenuto, l’alfa e l’omega. La prima parte di una strategia infatti si compone di due attività di ascolto per noi fondamentali:
L’analisi desk si concentrerà sui fattori rilevanti emersi dal brief: in questo modo risulterà subito più focalizzata per raggiungere gli obiettivi desiderati.
L’analisi dell’esistente ci dà la possibilità di capire da dove partiamo, considerando i ragionamenti nascosti dietro i contenuti e le probabili motivazioni che hanno spinto a quella pubblicazione. In questo caso mappiamo i canali usati dal brand, i temi dei contenuti che pubblica, i formati e le scelte visuali e testuali che li compongono.
Insomma, come si dice: conosci te stesso…O in questo caso, il cliente in cui ti immedesimi.
Però questo è solo il punto di partenza. A questa si aggiunge l’analisi dei competitor diretti o di bisogno, focalizzandoci sugli stessi elementi considerati nell’assessment. L’ideale è che sia il cliente a fornire un elenco di competitor che già monitora a livello di marketing. Talvolta questa analisi viene ampliata ad altri best player che possono diventare un’ispirazione, un caso studio per la gestione di un canale, la produzione di certi tipi di contenuti o l’uso di certi formati. Spesso questi casi studio hanno un elemento in comune con l’azienda per cui si sta conducendo l’analisi, per esempio la struttura di business o il settore (ma non l’area di mercato). Ma può succedere che talvolta questi brand siano semplicemente un esempio magistrale di content marketing che non si può non considerare. Le spalle dei giganti sono lì apposta per aiutarci a vedere più lontano, insomma.
Cosa ne viene fuori da tutto questo malloppo di analisi? Un documento che presenti le nostre considerazioni, certo, ma soprattutto un elenco di key learning sulla comunicazione di settore e una raccolta di best practice del benchmark di casi studio.
Ma c’è un terzo elemento fondamentale di questa fase di ascolto: il momento d’incontro con le persone che compongono l’azienda cliente. Quest’attività di workshop per noi è cruciale, perché permette di sentire con le parole di chi vive la realtà quotidiana aziendale, quali sono gli obiettivi di business e di comunicazione, quali le prospettive future per l’azienda e quali sfide e opportunità potremo incontrare in questo viaggio condiviso. L’importante è sempre ricordare che gli obiettivi da raggiungere con la strategia che stiamo andando a definire devono nascere dagli obiettivi aziendali.
L’azienda punta all’acquisizione di nuovi clienti? Oppure vuole aumentare le vendite tra i clienti esistenti? Vuole aumentare l’elasticità della domanda? O migliorare la reputazione del brand? Cambiare posizionamento? Domande simili determinano diversi obiettivi di comunicazione che possono essere awareness, engagement, reputation, traffico al sito, lead generation. Neanche a dirlo, farsi guidare da uno di questi obiettivi piuttosto che da un altro, determina l’intero approccio ai passi successivi: cambiano canali, tipi di contenuto, investimenti media e tono di voce.
Capire gli obiettivi da raggiungere ci aiuta a definire il passo successivo: definire con chi vogliamo parlare. La nostra audience è in parte implicita nell’obiettivo, ma è l’azienda per cui lavoriamo che dà la chiave di lettura corretta, anche sulla base dei dati che già possiede. Per chi non possiede informazioni precise è possibile integrare un’attività di ascolto costituita da interviste in profondità e questionari online. Ma questo è un argomento che lascio ai miei colleghi esperti di UX e research.
Che si tratti di persone che seguono il brand sui social, che leggono il blog aziendale o che stanno facendo una ricerca su Google, l’elemento cruciale del content marketing è capire chi sono questi utenti per fornire loro ciò che stanno cercando: qualcosa che li interessi, li intrattenga, li informi e li coinvolga.
Da qui la definizione delle buyer personas. Sapere quali sono i loro interessi, le loro professioni, alcune caratteristiche socio-demografiche e soprattutto il loro customer journey – e quindi tutti i touchpoint con il brand – ci aiuta infatti a parlare con loro, non solo nel modo migliore, ma anche nei canali giusti.
Un piccolo quiz semplicistico per voi. Target giovane, generazione Z: dove lo andreste a intercettare con più probabilità di trovarlo? Su Medium o su Tik Tok?
Se non lo sapete scriveteci pure, ve lo diremo più che volentieri, insieme al racconto della vision aziendale e alla presentazione di tutti i nostri servizi… Scherzo. O forse no.
Il passo successivo è la definizione del tono di voce della comunicazione. Un aiuto sostanziale arriva dalle informazioni che i dipendenti hanno condiviso con noi durante il workshop. Ascoltare quindi ciò che viene detto, ma anche come viene detto, e come il team dell’azienda percepisce il brand. Talvolta il tono di voce può essere già definito nelle linee guida che l’azienda ci condivide, oppure in una fase precedente di definizione/rinnovo della brand identity. In questi casi il ToV può essere adattato al canale specifico definendo necessità e casistiche peculiari.
L’aspetto fondamentale del tono di voce è che trasmette l’essenza del brand, la sua personalità e quindi determina anche la sua abilità di parlare con le persone: in un mondo digitale peer to peer, parliamo quindi di comunicazione Human-to-Human. Mostrare la personalità non solo permette di differenziarsi, ma anche di personificarsi e di accorciare le distanze già notevoli tipiche di una comunicazione mediata che elimina la comunicazione non verbale – grazie tante – ma anche quella para-verbale.
A questo punto possiamo procedere a definire il piano editoriale. Quali sono gli elementi fondamentali? In primis i filoni editoriali, determinati insieme all’azienda, da spunti emersi in fase di analisi e di workshop, e al momento della definizione delle personas. Stiamo parlando di temi mediamente ampi da poter raccogliere più spunti diversi. Un esempio possono essere i valori aziendali, le iniziative a tema responsabilità sociale d’impresa, oppure consigli per gli utenti come il “fai da te”, o ancora “l’esperto consiglia”. Potrei andare avanti, avete capito che mi piacciono le parole…
Ma stringiamo. A questo punto è il momento di stabilire i canali da sfruttare (blog, e-mail, social, …) e i formati più adatti: articoli, video, e-mail, infografiche, o contenuti social come caroselli, gif, slideshow, …
Il macro-piano editoriale fin qui delineato viene quindi temporizzato in un calendario editoriale e approfondito nel dettaglio di contenuto, sia visuale che testuale.
Wow, non solo è bello progettare una content strategy, ma anche raccontarla! Ma torniamo a noi.
L’ideale per una content strategy è quindi poter spaziare in modo trasversale su più canali per dedicare lo spazio giusto a ciascun contenuto e permettere alle persone di trovarlo. E questo è davvero un nuovo capitolo sulla promozione di contenuti di valore. La prima scelta è quella del digital (e quindi anche social) advertising, che permette a persone che hanno manifestato le loro passioni e preferenze di essere raggiunte da contenuti sponsorizzati per loro rilevanti e potenzialmente interessanti. La seconda opzione, più praticabile per contenuti su canali proprietari come il sito web aziendale, è quella dell’inbound marketing, cioè attrarre le persone sul proprio sito perché cercano informazioni su temi simili ai contenuti da voi offerti. Questo si lega strettamente al concetto di permission marketing che apre la strada al mondo della lead generation e dell’email marketing. Ma anche questa è un’altra storia.
Torniamo all’inbound più strettamente legato alla produzione di contenuti originali: sto parlando della SEO, l’ottimizzazione per i motori di ricerca, che permette di essere trovati quando viene fatta una ricerca pertinente. Come si lega la SEO alla content strategy? In fase strategica attraverso l’integrazione dell’analisi con una search analysis, che indaghi le keyword più rilevanti per il tipo di business e i competitor della SERP. Questo permette di definire tematiche e filoni editoriali rilevanti ai fini del posizionamento che devono sposarsi con quelli identificati attraverso l’analisi content. Psst, vi svelo un segreto: spesso una buona parte emerge da entrambe le analisi! Ma la ricerca SEO permette di scoprire trend di ricerca che magari sono meno intuitivi o intuibili e di completare così la proposta di filoni editoriali che popolano il piano editoriale.
In fase operativa, la SEO si lega alla strategia di contenuto grazie al SEO copywriting. Se desiderate approfondire questo tema, ecco l’articolo su che cos’è il SEO copywriting scritto dalla mia collega Valentina (uno spoiler: occhio al keyword stuffing se non volete incorrere nella sua ira!).
Insomma, scrivere per gli utenti e per i motori di ricerca dovrebbe produrre risultati simili, perché lo scopo sicuramente è lo stesso: scrivere contenuti rilevanti perché vengano trovati.
È arrivato il momento di tirare le fila e salutarvi, mi stanno strappando il pc da sotto le mani perché questo doveva essere un mid-form, ma io ne ho approfittato ed è diventato un very long-form.
La chiusa torna al principio, sull’importanza dell’ascolto. Che dite, il mio racconto di come ascoltiamo le persone vi ha convinto? Se mancasse ancora qualcosa, menziono rapidamente l’ultimo passaggio della content strategy: il monitoraggio. Gli obiettivi definiti all’inizio del viaggio hanno sicuramente comportato dei KPI che permettono di verificare il raggiungimento degli obiettivi. Monitorando l’andamento di questi indicatori fondamentali è possibile capire l’andamento della strategia e in caso riaggiustarla, adattarla, eliminando formati o tipi di contenuto che non riscuotono successo. Alcuni esempi? Se parliamo di contenuti SEO driven la risposta è intuitiva: la posizione sulla SERP. Se invece parliamo genericamente di traffico al sito, guarderemo il numero di visite, il bounce rate e le pagine visitate. Per l’engagement il numero di impression e interaction, … e così via.
Ma questo non fa altro che confermare: tutto parte e finisce con l’ascolto.
Per poi ripartire per una nuova avventura.