Digital copywriting: che cos’è? Si può definire come la scrittura di testi per il digitale. Ma questa definizione non è sufficiente a trasmettere cosa custodisce questo scrigno di parole inglesi.
Tutto parte dalle parole: le parole sono una parte essenziale dell’essere umano, l’unità di misura della comunicazione. Sono lo strumento invisibile che può toccare mente e cuore delle persone. Certo, non sono l’unico: anche la parte visuale di un contenuto raggiunge livelli profondi di connessione e ha un ruolo determinante. Non per niente, giusto qualche tempo fa mi è capitato di dire che digital copywriter e designer sono due metà di un’unica entità, l’evoluzione di quella famosa coppia creativa presente nelle agenzie pubblicitarie ben prima del digitale: copy e art, il dynamic duo.
Ma le parole… Sì, lo ammetto, il mio primo intento è dichiarare il mio amore per le parole. Le parole hanno un fascino tutto loro. Siamo noi a crearle, un noi collettivo che coincide con la società che ne è culla. Non a caso, il noi collettivo del 2016 è riuscito a far entrare nel dizionario la parola “petaloso” inventata da Matteo. Che, per carità, è degna di rispetto, perché palesa un’esigenza. Le parole, in particolar modo quelle nuove, sono infatti una manifestazione dell’essenza della società, dei suoi bisogni e cambiamenti.
Che siano scritte su carta o su una pagina web, il fascino delle parole risiede nella loro essenza una e trina, (scusate il richiamo religioso, ma è responsabilità della semiotica): immaginiamo le parole come un triangolo, a ogni vertice corrisponde a una sua dimensione.
La più facile è quella del significante, non tanto per questo termine ma per cosa rappresenta: è la manifestazione di una parola in forma scritta, verbale e fonetica. Ciò che trovate nel dizionario in grassetto, per intenderci, e se lo leggete ad alta voce avrete la terna secca.
Al significante segue il significato, la spiegazione che nel dizionario segue il lemma. Un insieme di parole che spiega la precedente. Questo concetto è già più complesso anche se intuitivamente comprensibile.
Un significato può essere compreso solo da chi ha già delle conoscenze pregresse della lingua. Mica noccioline. Lo diamo per scontato e questo è un peccato, perché si dà sempre meno valore all’apprendimento della lingua italiana in Italia, e alla memorizzazione di un lessico più ricco. Le parole di uso comune sono infatti davvero poche: delle 270 mila che in media si attestano nella lingua italiana, secondo Tullio De Mauro solo 7500 sono parte del vocabolario di base e solo 2000 di queste costituiscono il vocabolario fondamentale, l’insieme di termini conosciuti, capiti e usati ogni giorno che costituisce oltre il 90% dei testi nella nostra lingua. Seguono poi altri 3000 lemmi, parte del vocabolario ad alto uso, e altri 2500 compresi nel vocabolario ad alta disponibilità, cioè conosciute ma pronunciate o scritte raramente.
Ma torniamo al nostro triangolo. Il terzo estremo è il referente, un’immagine mentale del concetto, che il significante evoca, e il significato esprime. E da qui si capisce l’importanza e la potenzialità delle parole, quelle giuste: creano ed evocano immagini.
Vi chiedo di fare un respiro profondo e di chiudere gli occhi: immaginate di venire accarezzati da una brezza leggera che sa di sale. I vostri piedi affondano in un manto morbido di granelli sottili che si infilano tra le vostre dita. Riaprite gli occhi. Sì, non siete al mare, ma lo avete immaginato. E anche io con voi, forse perché è lì che vorrei trascorrere tutta l’estate.
Tutto ciò per dire che le parole hanno un potere tridimensionale che va sfruttato con etica e saggezza. Questi due valori sono fondamentali per un buon digital copywriter, che deve scegliere le parole con coerenza e pertinenza, ma soprattutto con maestria e a regola d’arte, a seconda dello scopo e del contesto.
Ma torniamo all’uso delle parole che un copywriter può fare.
A un certo punto del viaggio per scrivere questo articolo mi sono ritrovata dietro al mio banco in terza fila all’università, quando prendevo appunti, rigorosamente su carta, durante uno dei miei primi corsi, guarda caso di Pubblicità.
La prima pubblicità, come narra un famigerato manuale accademico, risale alla fine del II millennio a.C., e racconta del tessitore Hapù, che aveva un negozio in cui si tessevano le tele più belle di tutta Tebe, secondo i gusti di ciascuno. Certo, lo scopo di questo primo messaggio commerciale non era per nulla nobile, perché accompagnava un pubblico proclama per rintracciare uno schiavo fuggito e voleva ottimizzare la spesa dell’annuncio. Ma fornisce due spunti decisamente importanti: si possono dire le cose giuste anche con poche parole, e le parole hanno sia un peso che un costo, allora come oggi.
Per decenni le parole sono state l’unico mezzo di comunicazione commerciale, soppiantate poi nel XIX dalla componente visiva con il cartellonismo; non si possono non amare i manifesti di Depero per Campari, portavoce di un momento di connessione profonda tra arte, tecnica e pubblicità, in cui le opere di comunicazione commerciale erano così belle per un’esigenza dell’artista, che trasferivano questo valore alla committenza.
Nel XX secolo c’è stata una nuova rivincita delle parole grazie alla cosiddetta corrente scientifica, nata negli USA a partire dagli anni ’20. La pratica di quegli anni prevedeva che manifesti e annunci, si riempissero di parole, parole ovunque di tutte le dimensioni: headline enormi, body-copy lunghissimi, con taglio razionale o estetico-emotivo che fossero. L’apoteosi delle parole. Un sogno, per me, ma che sono conscia essere tale.
Ma per distinguersi forse bisogna aggiungere nuovi ingredienti alla ricetta per la perfetta pubblicità, e qui entra in gioco il mio pubblicitario preferito: Leo Burnett. Lo slogan della sua agenzia è diventato il mio mantra e tuttora è sintetizzato nel mio stato di WhatsApp: “reach for the stars”.
Tornando a noi, Leo Burnett fa gioco alla mia riflessione perché definisce i confini della pubblicità che condivido e abbraccio: deve essere attraente e coraggiosa, fresca e coinvolgente, ma soprattutto umana e credibile. Deve avere la capacità di creare una buona reputazione nel lungo termine, anche se sul momento ha la forza di convincere all’acquisto. Pubblicità buona, onesta. Etica. Con al centro le persone, che sono la nostra prima responsabilità.
Questo viaggio nel tempo, rivisto con gli occhi di oggi, mi fa ancora più apprezzare l’uso che in TSW facciamo delle parole. Ma perché vi ho tediato con questo flashback? Perché sono tutte riflessioni che riguardano il mondo prima del web. Ma, incredibilmente, hanno ancora valore, sebbene la comunicazione sia cambiata drasticamente: un nuovo paradigma fondamentale che non solo vede le persone al centro dell’attenzione di chi scrive i messaggi, ma addirittura attrici della reputazione dei brand.
Il web capovolge (o sconvolge?) i pesi e talvolta i ruoli, bisogna esserne consapevoli. E al tempo stesso bisogna tener presente che il nostro messaggio rischia di perdersi in un mare di informazioni, che neanche uno tsunami. Allora diventa fondamentale distinguersi, essere rilevanti e concentrare i nostri effort comunicativi verso persone che vogliono veramente ascoltare.
La definizione di Burnett si adatta perfettamente alla comunicazione digitale in TSW e il digital copywriting in questo ricopre un ruolo fondamentale. A seconda dello scopo che vogliamo servire seguirà delle regole diverse.
Il digital copywriting quindi trova diversi ambiti di applicazione. Ecco i principali in cui ho l’occasione di cimentarmi.
La pubblicità razionale degli anni ’20 è diventata la comunicazione volta alla conversione. Che si tratti di invitare a un acquisto online, o a registrarsi alla newsletter o al sito, a leggere un articolo di un magazine, o ancora a commentare un contenuto sui social, il digital copywriting a servizio delle performance ha un suo valore, che viene aumentato se è onesto e non ingannevole, e se effettivamente raggiunge le persone che possono essere interessate a quel messaggio, con un linguaggio in cui queste si riconoscono. E, se possibile, un pizzico di estro creativo.
Esiste poi la comunicazione volta a far conoscere un brand e a sviluppare awareness. Spesso questo per un copywriter significa abbracciare il mondo della User Experience e scrivere i testi per un sito web o una piattaforma digitale, che siano in linea con il tono di voce del brand (fondamentale, sempre!), asciutti e non ridondanti (anche questa regola dovrebbe valere sempre, per carità!), sintetici per essere armonici con i pattern di design, che aiutino la navigazione dell’utente. Il testo in questo caso contribuisce a un’esperienza naturale, piacevole e fluida. Mica poco. L’aspetto più di valore della UX writing è l’aiutare le persone nel compiere le azioni che desiderano all’interno di un sito; il secondo è che dà spazio sia per scrittura razionale che emozionale, a seconda del cliente, delle sue esigenze e della pagina.
Un altro modo per farsi conoscere e offrire contenuti di spessore è attraverso i social network. E qui la sfida per un digital copywriter si fa sempre interessante per i diversi equilibri da rispettare a seconda della natura e delle regole della piattaforma: la quantità di testo all’interno delle grafiche, la diversa lunghezza dei copy dei post e la coerenza con il tono di voce del cliente. Anche qui la creatività, all’interno dei confini dati dai vari canali, trova spazio in cui prosperare.
Esiste poi la comunicazione informativa, che vuole rispondere alle esigenze delle persone, manifestate attraverso le ricerche online: è qui che si gioca la sfida secondo me più avvincente e, da un certo punto di vista, creativa. Il SEO copywriting. Questa scrittura di contenuti parzialmente si fonde con quella descritta per la UX, e qui sta il bello: scrivere testi per siti che siano brevi, chiari, funzionali, adatti al cliente, e che comprendano le parole chiave rilevanti per le persone che cercano quell’argomento. Ma la scrittura per il posizionamento sui motori di ricerca copre territori più ampi, quelli sconfinati dei blog, magazine, journal, guide: il content marketing quello bello, a scopo informativo, per aiutare le persone a sapere, senza il filtro di un brand, che in quel caso è solo a servizio dell’utente con contenuti interessanti. Quello che viene trovato da chi lo cerca. La parte divertente sta proprio nei “paletti” che la SEO fornisce, che sono uno stimolo alla creatività e per una scrittura differenziante.
Il copywriting digitale è quindi un’arte, sì chiamiamola così solo per questa volta, fondamentale anche in un mondo dominato dalle immagini, ed è un’arte generosa: è a servizio dello scopo, ed è ben felice di rispondergli con efficacia e puntualità. Ma richiede sempre un pegno: tanto amore per le parole e per la lingua in cui scrivete, la voglia di contaminare le vostre conoscenze con gli argomenti più disparati e la pazienza di rileggere ciò che scrivete, micro o macro che sia.