Un 2017 tra opportunità d’investimento digitale, attenzione frammentata e sovrapposizione di schermi.
Una campagna di comunicazione oggi è un insieme di combinazioni razionali e al contempo coinvolgenti tra mezzi e messaggi. Gli investimenti pubblicitari e il mercato del programmatic buying nel 2017 raggiungeranno con la chiusura dell’anno 400 milioni di euro, cioè il 25% in più rispetto al 2016. Dobbiamo fare molta attenzione però alle reazioni di rifiuto nei confronti del classico approccio push dei messaggi di advertising: le persone, come i brand, hanno bisogno di contenuti e poche idee brillanti e autentiche, di immenso valore, che si consacrano come l’unico vero sollievo per catturare l’attenzione.
Dobbiamo stimolare risposte emozionali, durature, credibili, coerenti e connesse con il nostro pubblico. Le persone non sono più un bersaglio, ma vengono coinvolte per farle interagire con l’intero ecosistema mediatico e digitale.
Branded content, owned content: chiamatelo con l’etichetta inglese che preferite. Ciò che conta è che le aziende stanno investendo sempre di più nella creazione di contenuti originali su piattaforme originali. Se è chiaro ormai da anni il trend per cui le aziende (non editoriali) stanno diventando delle media company, allora dobbiamo tutti diventare consapevoli che le aziende non comunicano la propria identità di marca solo con campagne pubblicitarie rivolte al mass market, ma sta emergendo un trend sempre più significativo nella creazione di contenuti editoriali originali, distintivi, posizionanti.
Cosa era Netflix, prima di diventare la piattaforma di streaming video on demand più conosciuta al mondo? Un’azienda di distribuzione di DVD tramite un servizio di posta. Ora è il più grande creatore di contenuti originali al mondo: lo sapete tutti molto bene, voi che vi siete immersi nel binge watching di Stranger Things 2 nel weekend di Halloween.
Cosa era Amazon fino a circa 12 mesi fa? Era “solo” un’azienda di vendita al dettaglio online di prodotti di tutti i tipi. Ora è, dopo Netflix, il più grande creatore di contenuti video originali con Amazon Prime Video.
E sapete tutti cosa è Apple: uno dei maggiori produttori al mondo di hardware e software per computer, tablet e smartphone. Nel 2018 si prevede che Apple spenderà 1 miliardo di dollari nella creazione di contenuti originali.
E anche se la Pepsi in Italia è sovrastata dalla Coca-Cola e dai suoi brand, in America la quota di mercato della PepsiCo è in linea con quella dell’azienda di Atlanta: e proprio in America Pepsi si è dotata di un content studio per la realizzazione di contenuti originali, in linea con quanto già fa RedBull.
Tutti questi casi ci insegnano una sola cosa: i grandi player del mercato di massa (nel senso che la loro brand awareness è tra le più alte nei settori di riferimento) devono rimanere rilevanti e coerenti con le proprie audience, e alzare sempre di più l’asticella nella proposta di contenuti originali.
I brand devono diventare sempre di più dei “content brands”: se in un particolare settore gli investimenti nella produzione di contenuti originali non sono ancora alti, lo saranno presto. E se essere un first-mover nel mercato è un rischio, l’investimento viene ripagato facilmente se la moneta di scambio è un contenuto rilevante e contestuale per le persone che ci seguono.
Il content marketing spesso rientra nel mix delle attività digitali delle aziende in modo supportivo, con gli obiettivi generici di generare più engagement oppure di portare traffico qualificato a dei presìdi proprietari per l’azienda. Normalmente, le aziende preferiscono investire in un piano di contenuti legato a un particolare progetto o iniziativa: ad esempio dei video legati a una campagna, o attività di native advertising focalizzate in un particolare periodo.
L’elemento distintivo, in questo gioco, è dato dalla visione temporale che le aziende dedicano al content marketing: nei casi sopra-citati, di breve periodo. Quello che però distingue le attività di advertising da quelle di content marketing è proprio questo: perché il content marketing sia efficace, è necessario un piano di lungo termine di almeno un anno, basato su particolari obiettivi di business e marketing misurabili e il coinvolgimento di una fascia particolare del proprio target.
Se alcuni piani molto focalizzati temporalmente possono avere una buona efficacia a supporto di altri obiettivi (es. l’apertura di un mini-sito e la raccolta di traffico qualificato versi i siti dei diversi brand di FCA, come fece FCA con Il Sole 24 Ore per l’iniziativa “Breakfast Economy”), la verità è che per connotare il brand di una precisa identità editoriale è necessario lavorare con progetti più ampi, di largo respiro. Sempre restando in ambito FCA, un esempio perfetto in questo caso è il progetto editoriale “Heritage – Passione senza tempo”, con cui gli storici marchi del “Gruppo FIAT” consolidano la propria appartenenza a un universo valoriale che è entrato profondamente nei tessuti della società italiana.
Per ogni brand, esiste un unico e inimitabile set di valori da comunicare, con cui il proprio pubblico si può identificare e si sente assonante. Se l’azienda non lo conosce già, attraverso l’ascolto del mercato – e quindi con il monitoraggio delle conversazioni delle persone – è possibile ottenere una serie di indicazioni che saranno la base delle linee guida della content strategy.
Un progetto di contenuti su ampio respiro può essere attuato nel momento in cui l’azienda crede fortemente in un investimento che potrà avere un ritorno misurabile dopo almeno il primo anno di attività, e può passare attraverso la creazione di un hub editoriale o un sito dedicato all’espressione in forma editoriale dell’azienda, un po’ come ha fatto – in Italia – Treccani con Il Tascabile.
Non più di 20 anni fa, le aziende avevano tre mezzi di massa (o canali) a disposizione per la loro comunicazione istituzionale o pubblicitaria: la televisione, la radio, la carta stampata. Un brand, però, non può pensare alla propria comunicazione in funzione del canale: il brand, al massimo, può pensare a dove veicolare i propri messaggi in funzione dei propri obiettivi di marketing. In altre parole: non dobbiamo essere presenti su Facebook perché dobbiamo essere presenti su Facebook; dobbiamo essere presenti su Facebook perché tramite questo canale raggiungiamo particolari obiettivi (ad esempio: raggiungere nuova utenza, promuovere un particolare evento, portare traffico al sito, ecc.).
Questi concetti sono la base di qualsiasi manuale di marketing di un triennio di laurea, ma forse dobbiamo ancora uscire da questa “ubriacatura da social media”.
Le aziende sono sui social media perché “bisogna essere presenti”, ma è importante:
Se infatti oggi i nomi sono Facebook, Twitter (anche se un po’ meno) e Instagram (sempre di più), chi lo dice che domani non abbia senso focalizzarsi – per alcune tipologie di azienda – soprattutto su Facebook Messenger, Whatsapp e Instagram Direct, magari con un’esperienza integrata con un chatbot?
L’importante è non dimenticare mai che queste piattaforme di distribuzione hanno le proprie regole, che non sono controllabili da noi in nessun caso: se Facebook decide di penalizzare la reach organica di determinati contenuti, a livello tattico potremo considerare di intraprendere alcune azioni nel breve termine (ad esempio spostare una parte di budget media per sponsorizzare alcuni contenuti esterni sulla nostra Pagina Facebook), a livello strategico dobbiamo pensare a nuovi canali di comunicazione per soddisfare gli stessi obiettivi di marketing.
Tramite un’analisi competitiva su base almeno trimestrale, è necessario osservare quali siano le tendenze nell’utilizzo dei canali di distribuzione e amplificazione dei contenuti nel proprio settore. Una volta osservate queste nuove tendenze, bisogna interrogarsi sullo specifico ruolo svolto da ogni canale, senza rischiare la sovrapposizione dei contenuti, e ipotizzare quali gap potrebbe colmare l’attivazione di un nuovo canale, in linea con gli obiettivi di marketing dell’azienda.
I contenuti sono fatti per parlare con le persone, e alle persone si comunica con un linguaggio umano.
Lo diceva già il Cluetrain Manifesto, con le sue 95 Tesi, ben 18 anni fa, ma vale la pena ripetere le prime cinque:
In italiano, nella traduzione di Luisa Carrada:
Questo passaggio storico è necessario per arrivare a comprendere appieno il significato di concetti che in Gushmag e TSW crediamo come fondanti quando ci approcciamo al nostro lavoro su base quotidiana, come “UX Writing” e “Content Journey”.
Bisogna scrivere pensando all’esperienza delle persone: lo ha scritto benissimo Veronica qualche settimana fa. Ciò che è rilevante, per chi produce e distribuisce contenuti, è pensare a qual è l’effetto dei contenuti sulla vita delle persone: i contenuti, infatti, hanno un reale impatto su ogni singolo momento e punto di contatto tra la Persona e il Brand. Ecco perché dobbiamo pensare all’esperienza globale della persona: UX Writing è scrivere le parole migliori nel contesto giusto, pensando a dove e come una persona le incontrerà nel suo percorso.
Solo se siamo umani, possiamo scrivere parole che non solo abbiano una voce umana ma una sostanza umana.