“Misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è.”
Galileo Galilei
“Without data you’re just another person with an opinion.”
William Edwards Deming
Indice:
Perché al di là della moda o della strumentalizzazione alla quale a volte assistiamo, al di là del “marketing” del neuromarketing e di tutte le “discipline” che iniziano con il prefisso “neuro-”, lo sviluppo che questa branca della neuroeconomia che fonde il marketing tradizionale con neurologia e psicologia sta avendo è molto interessante e ha dei risvolti per me importanti, oltre quelli relativi al progresso di indagine tecnico-scientifica (che lascio ai colleghi esperti), che riguardano il marketing e il coinvolgimento o la riconnessione con le persone; temi a me cari e sui quali ho un po’ di esperienza. Ho una formazione umanistica e mi occupo da più di venti anni di comunicazione e l’ho sempre vissuta come una relazione fra brand e pubblico, marchi e persone; si comunica infatti con le persone.
Nell’etimologia latina, il termine persona (da per-sonar suonare attraverso) indica la maschera teatrale che veniva indossata dagli attori per intensificare la loro voce, facendola per-sonare o ri-suonare, e farsi ascoltare anche dagli spettatori più lontani dal palcoscenico. Il concetto di persona è ancora più primitivo di quelli della mente e del corpo. La persona è un essere sociale e vive e comunica con gli altri, ha sentimenti che condivide con gli altri, e in questo senso il termine individuo che spesso è usato come sinonimo guarda alla persona con le sue caratteristiche distintive e uniche, ma ogni individuo è anche una persona.
Oggi le persone sono lontane dal luogo dell’azione scenica, dove avvengono le scelte importanti, e sono relegate un po’ in disparte e possono solo compiere, o sono considerate solo quando compiono, decisioni o azioni di acquisto (o voto) e sono utenti o consumatori (o elettori, ma sempre più spesso trattati da pubblico).
Un approccio al marketing che fonde anche le neuroscienze e soprattutto riporta le persone vicine alle aziende e ai manager che prendono decisioni (anche perché solo gli strumenti di cui parleremo fra poco si appoggiano ai corpi delle persone ed entrano in contatto con la loro fisicità) può davvero fare da imbuto o cassa di risonanza, può far per-sonare la loro voce, Fuor di metafora, può aumentare la risonanza del contributo delle persone e può in ultima analisi migliorare l’esperienza delle persone che sono nei posti più lontani dal palco del moderno brand theater, sia esso realizzato in un sito o in un negozio.
Il neuro-marketing ha a che fare con la neurobiologia, la psicologia dei consumi e il marketing, ma in ultima analisi possiamo dire con le persone (persone che devono tornare ad essere soggetti di esperienza e non oggetti di studio), i loro comportamenti e i loro vissuti (e in questo senso, e al di là che la si consideri o meno disciplina a sé stante, può decisamente contribuire ad una rivoluzione antropologica e non tecnologica del marketing, come invece sembrerebbe ad un’analisi approssimativa).
Cos’è allora il neuro-marketing?
Beh, il neuro-marketing non è una cosa.
Quello che diffusamente oramai è chiamato neuromarketing (tuttaunaparola), con forse più di qualche eccesso di entusiasmo o persino sopravvalutazione (se non addirittura uso strumentale o tendenzioso, di gergo, per moda e tendenze appunto), altro non sono che applicazioni di tecniche di misurazione psicofisiologiche al mondo dello studio dei consumatori e dell’analisi dell’esperienza degli utenti, che noi chiamiamo, non a caso, persone.
Il neuromarketing, nella sua migliore accezione, è una branca della neuroeconomia (o anche se vogliamo delle neuroscienze della decisione), ma più semplicemente, ed empiricamente, è una disciplina, o para-disciplina, dedicata all’applicazione delle conoscenze e delle pratiche neuroscientifiche al marketing, allo scopo di analizzare i processi inconsapevoli che avvengono nella mente del consumatore (che noi preferiamo considerare nell’interezza della sua persona) e che influiscono sulle decisioni di acquisto (un aspetto rilevante e pervasivo) o sul coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand (un aspetto ancora più importate e diffuso perché la relazione col brand va ben oltre il mero rapporto commerciale).
Se abbiamo capito cos’è o potrebbe essere, e soprattutto se gli vogliamo riconoscerne una validità applicativa e delineare in che alveo si inserisce semmai rispetto a certe derive, proviamo a sgombrare il campo e prendiamo subito posizione:
Come abbiamo avuto modo di argomentare già nella pagina dedicata all’impatto emozionale nella sezione delle nostre Ricerche sulle Esperienze del nostro sito, preferiamo non utilizzare questo termine per le nostre attività, anche se ci rendiamo conto che vale sicuramente la pena chiarire meglio cos’è e quali potenzialità ha questa nuova “disciplina” trasversale.
Partiamo da cosa il neuro-marketing non è:
Il neuro-marketing infatti non è una moda, non è solo gergo cosmetico, nemmeno una pletora di nuovi strumenti o gadget per analizzare siti e campagne.
A volte il neuromarketing è presentato come uno strumento per entrare letteralmente nella testa dei consumatori, noi vorremmo considerarlo in realtà proprio alla rovescia: come cioè un’opportunità di far rientrare i consumatori, letti come persone, con i loro desideri, i loro timori e la loro storia, nella mente delle aziende e delle persone che nelle aziende lavorano. Per questo preferiamo parlare di riconnessione fra brand/aziende e clienti/utenti, ovvero persone che realizzano beni e servizi per realizzare esperienze migliori per quelle persone che utilizzeranno quelle interfacce o prodotti.
Come si capisce molto probabilmente dagli altri contributi che si trovano nel nostro sito e riguardano la riconnessione e l’approccio della sesta W che è il WITH, per noi è importante considerare il neuro-marketing, che abbia o meno lo statuto di disciplina a sé stante e al di là delle mode del momento, per le opportunità di analisi e di miglioramento della esperienza degli utenti, che per noi sono persone, e della loro vita in ultima analisi.
Potremmo e preferiamo considerarlo un neo- o nuovo marketing, antropologico più che tecnologico, e davvero user-centrico, o per meglio dire people-driven, qui val la pena forse solo tangenzialmente richiamare il mio articolo sulla 5 P del marketing del prof. Kotler che era lungimirantemente la P di People.
Perché il ne(ur)o-marketing più di altre discipline recenti, riporta le persone in un modo o nell’altro davvero al centro della scena e può far entrare nel marketing l’implicito (i vissuti non consapevoli o dichiarati degli individui che influiscono sulla percezione e sull’esperienza stessa) e prendere le distanze dallo scontato (ovvero gli sconti magari fanno anche vendere molto, ma non le cose che troppo spesso diamo per scontate, ad es.: che le persone siano racchiudibili in numeri e che ne si capiscano i vissuti in maniera riduzionistica analizzando il comportamento di navigazione).
Come abbiamo detto quindi le attività che ricadono nell’alveo della “disciplina” emergente del neuro-marketing sono conoscenze e pratiche neuroscientifiche applicate al marketing allo scopo di analizzare i processi irrazionali che avvengono nella mente del consumatore e che influiscono inconsapevolmente sulle decisioni di acquisto oppure sul maggiore o minore coinvolgimento emotivo nei confronti di un brand.
Questa attività di indagine, più che disciplina, propone una soluzione complementare alle ricerche di mercato tradizionali, fornendo una soluzione ad alcuni problemi e limiti associati a queste ultime.
Bisogna infatti partire dal presupposto che non sempre gli individui dicono ciò che pensano: vergogna, pregiudizi o paura del giudizio altrui, infatti, possono condizionare le risposte a questionari, survey o indagini di mercato in varia forma e focus group, che sono strumenti che hanno avuto una certa diffusione con lo sviluppo delle ricerche sui consumatori nella seconda metà del secolo scorso. I metodi tradizionali riescono però al massimo a raccogliere le emozioni esplicite (o coscienti), ma non riescono a rilevare i vissuti impliciti (o inconsci) del consumatore.
Per il marketing, la grande novità apportata dal neuro-marketing non riguarda soltanto l’utilizzo di strumenti e conoscenze neuroscientifiche, ma anche l’opportunità che porta con sé, connaturata nel suo essere interdisciplinare, di prendere spunto anche da altre scienze che, negli anni, hanno dimostrato la loro utilità per la comprensione del consumatore. In effetti, è comune trovare, nella letteratura e negli studi condotti nell’ambito delle neuroscienze della decisione, alle quali ci siamo richiamati per definirlo nella sua ampiezza, riferimenti a delle conoscenze appartenenti all’economia comportamentale e alla psicologia cognitiva e sociale.
A queste discipline, nell’approccio con metodi misti che applichiamo in TSW, si aggiungono l’influenza e il contributo di altre discipline umanistiche quali: ergonomia, antropologia e sociologia che compenetrano le competenze indispensabili della psicofisiologia. Questo ad oggi, ma la sfera di influenza e l’allargamento del campo di applicazione del modello di ascolto TSW ci porterà sicuramente ad estendere gli ambiti.
L’intreccio di queste discipline permette di costruire un quadro molto più completo sul consumatore, che lo ricordiamo non è da noi più letto o considerato solo come tale, e sulle motivazioni inconsce che guidano le scelte quotidiane. È grazie all’allargamento di questo quadro che ci permettiamo quindi di dire che utenti e clienti non esistono e di parlare del più ampio spettro dell’esperienza delle persone.
Spero di aver chiarito perché il neuro-marketing non dovrebbe essere considerato come una disciplina a sé stante quanto come più la convergenza di approcci e di ricerche di discipline diverse, e quindi visto che ci avvaliamo di altri termini e di altre discipline per definire e meglio caratterizzare il neuro-marketing, come preferibilmente dovremmo scriverlo, magari è meglio definire il significato di questi ultimi.
Le neuroscienze (o neurobiologia) sono l’insieme degli studi scientificamente condotti sul sistema nervoso. Essendo un ramo della biologia, le neuroscienze richiedono conoscenze di fisiologia, biologia molecolare, biologia cellulare, biologia dello sviluppo, biochimica, anatomia, genetica, biologia evoluzionistica, chimica, fisica, matematica e statistica, ma a differenza di altre discipline biologiche attingono anche da ambiti di studio quali psicologia, l’economia e linguistica. L’ambito delle neuroscienze si è infatti ampliato per includere diversi approcci utilizzati per studiare gli aspetti molecolari, cellulari, dello sviluppo, strutturali, funzionali, evoluzionistici, cognitivi, computazionali e anche patologici del sistema nervoso.
La neuroeconomia, o neuroscienze della decisione come abbiamo detto, è un recente settore della ricerca neuroscientifica che studia il funzionamento della mente umana in relazione ai processi decisionali nella soluzione di compiti economici. Poiché si avvale dei contributi di molte discipline, quali la neurologia, l’economia, la psicologia, la medicina, la matematica e la biologia, è certamente possibile affermare che la neuroeconomia ha uno spiccato carattere interdisciplinare. Nasce dalle intuizioni degli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky, dai quali fu fondata l’economia comportamentale, unitamente alla scoperta di innovativi strumenti di rappresentazione visiva delle funzioni cerebrali (brain imaging). L’obiettivo della neuroeconomia è quello di incrociare il corpus di conoscenze della sfera economica con quelle provenienti da ambiti psicologici e scientifici per determinare come si comporta il cervello durante i processi di decision making.
Preferiamo fare riferimento alla neuroeconomia come disciplina per i presupposti di ricerca che la animano. Il presupposto infatti da cui parte l’analisi neuroeconomica in generale è che – a differenza di quanto affermato dall’economia tradizionale – l’uomo non è un animale razionale, bensì agisce sotto l’impulso di processi neuronali automatici e molto spesso inconsci, talvolta indipendenti dalla propria volontà. Ciò fa sì che il comportamento economico umano sia frutto di un conflitto neuronale tra razionalità ed emotività, automatismo e consapevolezza.
Il neuro-marketing quindi sotto questa luce è una promettente branca della neuroeconomia, è una para-disciplina, o se vogliamo dire una scienza applicata, che prendendo il carattere interdisciplinare della ricerca dalla scienza dalla quale nasce, fonde il marketing tradizionale (economia) con neurologia (medicina) e psicologia (scienze comportamentali) e si prefigge di illustrare ciò che accade nel cervello delle persone in risposta ad alcuni stimoli relativi a prodotti, servizi, marche, pubblicità, negozi o ambienti con l’obiettivo di determinare le strategie che spingono all’acquisto. L’interessamento del sistema nervoso centrale, e in particolar modo delle zone cerebrali attive durante l’esecuzione del processo decisionale, sono all’origine della composizione del nome e del prefisso neuro-; a dire il vero un po’ abusato al giorno d’oggi (circa le critiche all’eccessiva semplificazione vedi il paragrafo seguente).
Il termine “neuromarketing” è stato coniato nel 2002 da Ale Smidts, professore di Marketing Research alla Rotterdam School of Management (Shiv, B., Bechara, A., Levin, I., Alba, JW, Bettman, JR, Dube, L., Isen, A., Mellers, B., Smidts, A., Grant, SJ, & McGraw, AP (2005). Decision Neuroscience. Marketing Letters, 16 (3/4), pp. 375-386; qui trovate l’articolo completo), ma nel 2004 è stato uno studio di Coca Cola vs. Pepsi, citato da questo articolo sulla legittimità scientifica del neuromarketing scritto dal nostro ricercatore Maurizio Mauri, che ha davvero aperto gli occhi ai marketer di tutto il mondo (Samuel M. McClure1, 2, Jian Li1, Damon Tomlin, Kim S. Cypert, Latané M. Montague, P.Read Montague (2004). Neural Correlates of Behavioral Preference for Culturally Familiar Drinks. Neuron Volume 44, Issue 2, 14 October 2004, pp. 379–387; qui trovate l’articolo completo).
Il neuromarketing è diventato così in questi suoi meno di venti anni di storia un campo di studio che combina metodologia scientifica e tecnologia e offre risultati rispetto agli stimoli di marketing e all’individuazione di canali di comunicazione dal punto di vista cognitivo, affettivo e sensoriale.
Se volessimo provare a fornire una definizione più sintetica:
(Lee N.; Broderick A.J.; Chamberlain L. “What is “neuromarketing”? A discussion and agenda for future research”. International Journal of Psychophysiology. 63 (February 2007): pp. 199–204; qui trovate l’articolo completo).
Martin Lindstrom, il famoso marketer e speaker danese (autore del libro “Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto” – Apogeo. 2009 in cui viene presentata un’attività di ricerca durata tre anni condotta su 2.000 consumatori volontari il cui cervello è stato analizzato attraverso la risonanza magnetica funzionale fMRI – Functional Magnetic Resonance Imaging – quando erano sottoposti a più diversi stimoli), ha contribuito alla diffusione planetaria del nome mettendo in evidenza già più di una decina d’anni fa l’utilità del neuromarketing per le aziende aggiungendo tuttavia al tempo stesso che questa “disciplina” presenta intrinsecamente dei limiti che riguardano l’incompleta comprensione che si ha ancora del funzionamento del cervello umano (questo è un suo contributo registrato l’anno scorso al PKMF di Bologna nel quale presenta un evoluzione della sua ricerca sul neuromarketing e dei suoi strumenti a favore degli small data e del H2H o Human to Human marketing).
In aggiunta ai limiti intrinseci di questa para-disciplina, ci sono quelli che riguardano l’eccessiva semplificazione da parte dei media, e di alcuni operatori senza scrupoli, dei reali processi che sottostanno alle decisioni e al comportamento dei consumatori; spesso, infatti, per rendere l’informazione accessibile al pubblico vengono diffuse notizie poco accurate e semplicistiche sul reale funzionamento del cervello.
Per questo motivo sono sorte alcune critiche e riflessioni, all’interno della comunità scientifica delle neuroscienze e della psicologia del consumo, da parte di autori come Hilke Plassmann, professoressa associata di Marketing all’INSEAD di Fontainebleau, e collaboratori che avvertono circa i potenziali problemi associati a interpretazioni poco accurate di studi e scoperte neuroscientifiche (H. Plassmann, V. Venkatraman, S. Huettel, C. Yoon. Consumer Neuroscience: Applications, Challenges, and Possible Solutions.in Journal of Marketing Research, Vol. LII (August 2015), pp. 427–435; qui trovate l’articolo completo).
Il primo decennio di ricerche sulla neuroscienza dei consumatori ha prodotto un lavoro rivoluzionario nell’identificazione dei processi neurali di base alla base del giudizio umano e del processo decisionale, con la maggior parte di tali studi pubblicati su riviste di neuroscienza. Tuttavia, perché il settore delle neuroscienze dei consumatori possa prosperare nel prossimo decennio, l’attuale enfasi sulla ricerca scientifica di base deve essere estesa alla teoria e alla pratica del marketing.
Circa il tema delle semplificazioni, si pensi a metafore come il “bottone dell’acquisto”, e a quella che risulta come una eccessiva semplificazione dei reali processi che sottostanno alle decisioni e al comportamento dei consumatori.
Nonostante ci sia una consapevolezza crescente da qualche anno e una maggiore prudenza nel parlare di questi argomenti, sono state mosse alcune critiche da parte di alcuni elementi della comunità scientifica appartenenti all’ambito delle neuroscienze e della psicologia del consumo. Plassmann e collaboratori (H. Plassmann, T. Z. Ramsøy, M. Milosavljevic, Branding the brain: A critical review and outlook. in Journal of Consumer Psychology 22(1): January 2012 pp. 18–36; qui trovate l’articolo completo), per esempio, fanno una distinzione, di carattere esplicitamente critico, tra neuroscienza del consumatore e neuromarketing. Mentre la prima riguarda la «intercessione delle neuroscienze e della psicologia del consumo nella ricerca accademica, il neuromarketing invece riguarda l’interesse commerciale per strumenti di analisi neurofisiologica come eye tracking, conduttanza cutanea, elettroencefalografia e risonanza magnetica funzionale al fine di portare avanti ricerche di mercato orientate alle aziende».
Su questa stessa linea di pensiero, diciamo critica, si sono ritrovati diversi esperti del settore trai quali Marlene Behrmann professoressa di neuroscienze cognitive alla Carnegie Mellon University che afferma: “… nonostante decenni e decenni di ricerca, abbiamo ancora una comprensione rudimentale delle funzioni cerebrali”.
La ricerca che portiamo avanti si rivolge direttamente alle persone, che diventano utenti/partecipanti dei nostri test, per capire, registrare e comprendere la loro esperienza. Queste persone sono un campione rappresentativo del target, ovvero degli individui che non sono solo bersaglio di attività di marketing, ma consumatori, produttori e riproduttori di esperienza con noi, prosumers nel vero ed originale senso del termine (cfr. Marshall McLuhan M., Nevitt B., Take Today: The Executive as Dropout., in The Library Quarterly, vol. 43, n. 2, 1973, p. 4; qui trovate l’articolo completo).
Un modo comune per affrontare gli aspetti emotivi e cognitivi durante un test sull’esperienza degli utenti oggi avviene attraverso una tecnica chiamata think aloud, un metodo che consiste nel registrare ed analizzare quanto detto da un utente invitato a verbalizzare le proprie azioni e i propri pensieri durante l’utilizzo del prodotto o del servizio analizzato, e un self-report retrospettivo in cui agli utenti viene chiesto di descrivere o rispondere a domande sulla loro esperienza, sia verbalmente che attraverso un questionario scritto. Mentre questi metodi sono all’ordine del giorno, si basano troppo sulla natura altamente soggettiva dell’interpretazione dei partecipanti e sul ricordo delle loro emozioni. La realtà è che i partecipanti ci dicono quello che pensano che vogliamo sentire e / o segnalare selettivamente le loro emozioni. A volte non riescono nemmeno a interpretare i propri sentimenti abbastanza bene da raccontarci di loro. Le misurazioni fisiologiche riducono la soggettività nel valutare l’esperienza dell’utente basandosi su metriche quantitative che sono l’output di dispositivi che misurano principalmente le risposte involontarie agli stimoli.
I grandi progressi a livello tecnologico nel campo delle neuroscienze, che ci sono stati negli ultimi anni, permettono di ottenere delle immagini di alta qualità del cervello umano e della sua attività in tempo reale, attraverso risonanza magnetica funzionale o elettroencefalogramma. Il progresso raggiunto nell’ottenere un tale livello di quantità e qualità dei dati purtroppo però non procede di pari passo con la capacità di interpretare questi stessi dati. Si può dedurre, allora, che i progressi nel campo del neuromarketing sono strettamente legati all’evoluzione delle scienze cognitive.
Abbiamo visto come lo sviluppo, la miniaturizzazione e la diffusione degli strumenti e delle tecniche di misurazione psico-fisiologiche per ottenere insight sul consumatore (che noi preferiamo chiamare persona) e sul processo di presa di decisione, ha permesso l’introduzione di questa metodologia di ricerca in più ambiti.
Ci teniamo però davvero a sottolineare e non ci stanchiamo mai di ripetere come nel nostro approccio e con le persone:
Però dobbiamo riconoscere e abbiamo altresì già sottolineato come una parte importante può essere giocata dagli strumenti e dalle metodiche, specialmente nella rilevazione dell’implicito e del dato bio-metrico scientificamente rilevato in un esperimento ripetibile.
Vediamo ora quali sono in particolare gli strumenti:
Il brain imaging, del quale abbiamo parlato prima, e la rilevazione delle attività cerebrali avvengono attraverso metodi come l’elettroencefalografia (EEG-ElectroEncephaloGraphy) e la risonanza elettromagnetica funzionale (FMRI, Functional Magnetic Resonance Imaging), entrambi strumenti che permettono di scoprire le reali reazioni cognitive-emozionali di una persona. La differenza tra questi due metodi è che il secondo pur avendo molte più difficoltà di applicazione permette un’indagine più approfondita rispetto al primo, anche se il primo è più semplice ed economico e più facilmente trasportabile.
Queste due tecniche, in particolare la prima (che lo ricordiamo è più facilmente trasportabile e molto poco invasiva), unite all’Eye Tracking, sono le principali metodologie di indagine che una ricerca di neuro-marketing di solito utilizza. L’eye tracking è ora disponibile anche con occhiali e quindi sono degli strumenti facilmente portatili.
Le tre tecniche viste prima legate alle tre metodologie o strumenti che elenchiamo qui di seguito coprono la maggior parte degli strumenti che vengono messi in campo nella maggior parte degli studi.
A tutti gli strumenti o metodiche precedenti (che lo ricordiamo riguardano aspetti bio-medici e comportamentali e si realizzano facendo entrare fisicamente in gioco le persone e il loro corpo) si deve aggiungere nel nostro modello quantomeno una padronanza delle tecniche di Psicologia Cognitiva e Sociologia Comportamentale, proprio perché abbiamo visto come il nostro comportamento subconscio prenda per la maggior parte delle volte il sopravvento sul nostro comportamento conscio e razionale.
Nessuna delle misurazioni discusse può, da sola, catturare completamente l’esperienza emotiva dell’utente, o come abbiamo più volte sottolineato preferiamo considerare come persona. Gli strumenti e i protocolli vanno considerati complementari e, in alcuni casi, supplementari. Il vantaggio dell’utilizzo di più tipi di dispositivi biometrici è che possiamo imparare cose diverse da dispositivi diversi. La valenza è una misura della natura positiva o negativa dell’esperienza del partecipante. Utilizzando l’EEG e l’analisi della risposta facciale, possiamo misurare se il partecipante sta avendo una reazione relativamente buona o cattiva. GSR e frequenza cardiaca non sono i migliori strumenti o indici per misurare la valenza, ma sono buoni indicatori del livello di eccitazione di un partecipante. Combinando i benefici di ogni tipo di misurazione, possiamo identificare tipi specifici di esperienze emotive.
Utilizzando una combinazione di eye tracking, EEG, GSR e analisi della risposta facciale è possibile individuare quando sono avvertite determinate emozioni. I principali vantaggi di questo approccio includono:
Usando il tracciamento degli occhi, possiamo determinare:
Utilizzando EEG, GSR e analisi della risposta facciale possiamo determinare:
Utilizzando i metodi di self-report condotti post esperienza possiamo comprendere:
In un test di usabilità (ambito per il quale TSW ha una decennale esperienza e del quale ho già scritto in questo articolo), comprendendo gli alti e bassi del percorso emozionale di un utente nel suo confronto con un’interfaccia digitale, altrimenti nota come sito web, un team può ottimizzare le caratteristiche del design per ridurre al minimo gli specifici pain point e enfatizzare elementi che forniscono un’esperienza positiva.
Le tecniche neuroscientifiche permettono di analizzare il coinvolgimento emotivo dei consumatori nei confronti di brand, pubblicità, esperienza o qualsiasi altro stimolo. Gli eye-tracking glasses e l’elettroencefalogramma, in particolare, permettono di realizzare dei test anche al di fuori del contesto del laboratorio, come ad esempio all’interno di negozi per misurare l’impatto dell’esperienza in-store sul consumatore e per capire come migliorarla, individuando quegli elementi (sonori, olfattivi, visivi o tattili) che portano ad un maggior coinvolgimento emotivo degli individui.
È possibile migliorare la customer experience aumentando il coinvolgimento emotivo del cliente verso il marchio, infatti, non solo all’interno del negozio, ma anche attraverso l’analisi della user experience, studiando le risposte a livello fisico, psicologico ed emotivo che si verificano prima, durante e dopo l’utilizzo di un prodotto.
Abbiamo prima visto come con delle misurazioni biometriche possiamo misurare le emozioni (degli utenti), la loro valenza positiva o negativa, il livello di arousal, il battito cardiaco e avere un’idea concreta di ciò che provano davvero, anziché basarci soltanto su ciò che ci dicono sull’esperienza di navigazione, o sull’utilizzo di un prodotto. Questi tipi di tecniche sono utili per analizzare una serie di fattori relativi al grado di attenzione e di coinvolgimento dell’utente, ma anche eventualmente al livello di stress o di frustrazione nell’effettuare un determinato compito all’interno del sito o nell’utilizzo di specifiche feature di prodotto.
L’utilizzo di strumenti di analisi biometrica per analizzare le risposte fisiologiche degli utenti in tempo reale permette di:
I dati ottenuti vengono poi messi a confronto con le risposte fornite dai partecipanti durante le interviste in profondità sull’usabilità e sulla relazione con il brand/prodotto, per ottenere un quadro più completo sulla reale percezione della user experience on- e potenzialmente off-line.
Insomma, non so se sono riuscito a spiegarmi e mi muovo come capirete in un terreno non proprio mio, ma quello che mi preme che passi è che: essere user-centrici o servirsi di tecniche bio-metriche, preoccuparsi della UX o occuparsi di neuro-marketing, oggi ci dà un mare di possibilità in più che spero di aver ben riassunto nei paragrafi precedenti, ma la possibilità che mi preme di più e dalla quale a mio avviso emerge il valore maggiore è la riconnessione ovvero la prossimità alle persone, che tecniche di questo tipo portano intrinsecamente con loro. Tecniche che riportano le persone e il loro corpo vicino ai ricercatori, tanto vicino da toccarle per far indossare loro: un caschetto, un paio di occhiali, un anello o un sensore e in qualche maniera far toccare con mano i loro vissuti e far sentire in diretta ai manager delle aziende, che possono aver dimenticato per chi facevano prodotti o servizi, quello che le persone hanno da dire.
Abbiamo parlato di persone e di miglioramento della qualità della loro esperienza, ma cosa intendiamo con miglioramento e perché possiamo sostenere che le attività di neuromarketing e soprattutto il coinvolgimento diretto con le persone nella co-creazione di esperienze migliori può generare un’economia circolare e sostenibile, un pensiero, o un approccio, sistemico alle relazioni sociali, ai flussi di beni e servizi e alla vita in sé.
Perché il nostro obiettivo: migliorare la vita delle persone, preoccupandosi del valore e non del profitto (il secondo segue il primo e non viceversa), avendo come guida la qualità e non la quantità delle loro esperienze in ogni momento, e infine le persone delle quali abbiamo parlato, lo riconosco anche in modo ridondante o con un’evocazione ripetuta, non sono solo utenti visti come…, ma anche dipendenti vissuti come…, partner professionali intesi come… persone.
E le PERSONE, per loro intrinseca natura,
se sono ascoltate:
saranno DISPOSTE,
se sono coinvolte:
saranno ATTIVE,
se sono abilitate:
saranno POTENTI,
e se quindi sono potenti:
saranno ASCOLTATE,
e se quindi sono disposte:
saranno COINVOLTE
…
Essere coinvolti, questo è in sintesi il valore profondo del WITH che è la sesta W e per noi un approccio essenziale alla vita e agli affari.