Le emozioni guidano i nostri comportamenti più di quanto siamo disposti ad accettare. Spiegare a parole l’intensità emotiva però è una situazione estremamente complessa.
Il portato emozionale delle persone è la parte più preziosa della ricerca che indaga il valore e la qualità delle esperienze, perché è un valore unico e sostanziale per poter contribuire al miglioramento delle stesse.
Da un punto di vista psicofisiologico attraverso l’uso congiunto di eye tracking ed elettroencefalografia (EEG) è possibile misurare e comprendere quali emozioni / reazioni riesca a generare un prodotto, sia esso fisico (packaging) o digitale (e.g. video & display advertising).
La definizione di un disegno sperimentale ad hoc consente poi di creare delle condizioni di studio per testare diverse versioni dello stesso prodotto o confrontare il proprio prodotto con quello dei competitor.
E sarà così prevalentemente in tutte le pagine istituzionali TSW e ovviamente meno negli articoli dove presentiamo prospettive o punti di vista anche esterni. La parola neuromarketing non ha in sé nulla di negativo, o se vogliamo di sbagliato, se non forse rappresentare un approccio semplicistico e una tendenza a essere usato più per moda o pseudo-modernità. Non è sicuramente necessario discutere qui il gergo del marketing e il suo abuso di anglismi o di neologismi pseudo-differenziati, perché seguono ogni innovazione “moderna” o nuova moda “cool”.
Perché nell’approccio di ascolto che TSW porta avanti non trova spazio il neuromarketing (come parola almeno)?
Il neuromarketing, tutta una parola sola (quando non è sòla), al massimo si configura come il campo di applicazione di ricerche che escono dai laboratori di neuroscienze e si insinuano con maggiore o minore appropriatezza, competenza o cogenza nell’economia e nel marketing.
In TSW lavora un team di psicofisiologi, psicologi cognitivi, ergonomi, antropologi, sociologi che hanno iniziato nei laboratori accademici le loro ricerche e con TSW hanno potuto applicare o testare le metodologie in contesti reali, con aziende e con persone.
Proprio sulle persone troviamo gli aspetti positivi nel neuromarketing in contrapposizione o in controtendenza rispetto a modelli distanti dalle persone, dalle loro esperienze, dai loro bisogni o vissuti.
Il modello del proiettile magico (magic bullet theory) ad esempio, è una teoria che considera i mass media – e il marketing della fine del secolo scorso, che ha contato fin troppo sull’egemonia del complesso industriale-televisivo – come strumenti di propaganda e di persuasione di una massa passiva e inerte.
Nella bullet theory, come si evince dalla traduzione letterale, il “proiettile”, ovvero il messaggio, dovrebbe colpire direttamente un soggetto passivo. Questa teoria, oggi abbandonata, ha comunque ancora un valore schematico e semplificativo purtroppo molto diffuso nel marketing, che porta con sé il concetto di target, letteralmente “bersaglio”, usato in pubblicità per indicare i destinatari di un annuncio o per indicare i consumatori “obiettivo” delle attività di marketing.
A volte il neuromarketing è presentato appunto come uno strumento per entrare letteralmente nella testa dei consumatori (preso atto che la tv non è più in grado di diffondere i prodotti come accadeva un tempo e che anche grazie al digitale è in declino dalla prima decina d’anni di questo secolo).
Questa modalità di presentare il neuromarketing sottende una visione riduzionistica e semplicistica delle persone prima, e reificante o strumentale dei consumatori poi. Il neuromarketing, persino nella sua realizzazione più deleteria o strumentale, non può per fortuna raggiungere un obiettivo così riduttivamente psicagogico.
Un aspetto però davvero positivo nel neuromarketing, qualunque sia il modo in cui lo si interpreta o viene portata avanti, è che rimette al centro la persona, l’individuo del quale sono registrati i dati psicofisiologici. E non è poca cosa, per uscire dalla logica dei target, degli indici o degli utenti. Infatti solo grazie alla possibilità di coinvolgere le persone negli studi sarà possibile utilizzare, o anche sfruttare, queste tecniche. Che il nostro modello di ascolto porti con sé l’auspicio che le persone vengano interpellate come tali e non come strumenti è poi una questione di obiettivi e di valori.
Intanto quello che noi facciamo sono applicazioni di tecniche di misurazione psicofisiologiche al mondo dello studio dei consumatori e dell’analisi dell’esperienza degli utenti, che noi chiamiamo, non a caso, persone.